Giornata della Memoria. Una mostra per ricordare Primo Levi

“Non c’è bisogno di enfatizzare l’orrore. L’orrore era nei fatti, in ciò che è stato. È sufficiente e necessario raccontare i fatti, con cura e precisione”.
Primo Levi al Pian de la Tornetta, 31 luglio 1983 © Biblioteca nazionale Cai

“Le ossa della terra. Primo Levi e le montagne” è il titolo della mostra che ha preso il via due giorni fa al Museo della montagna di Torino. Un modo inedito di ricordare l’impegno civile e letterario dello scrittore. La data di apertura è volutamente vicina alla Giornata della memoria, il 27 gennaio, quando si commemorano le vittime della violenza nazista, nel giorno della liberazione del lager di Auschwitz, per onorarle in modo serio e sobrio, senza retorica e senza troppi aggettivi, perché come diceva Primo Levi: “Non c’è bisogno di enfatizzare l’orrore. L’orrore era nei fatti, in ciò che è stato. È sufficiente e necessario raccontare i fatti, con cura e precisione”

La mostra, curata da Guido Vaglio con Roberta Mori, è ricca di fotografie inedite provenienti dal Centro Internazionale di studi Primo Levi, lettere, disegni, documenti e testimonianze provenienti dall’Archivio Mario Rigoni Stern di Asiago e dalla Fondazione Nuto Revelli di Cuneo, e sarà visitabile sino al 13 ottobre. Il titolo prende spunto da una frase del racconto Piombo, compreso ne Il sistema periodico, dove sono definite così le rocce della montagne. Il catalogo, destinato a dare durevolezza e profondità all’evento, raccoglie testi dei due curatori e contributi di Enrico Camanni, Massimo Gentili Tedeschi, Giuseppe Mendicino, Alessandro Pastore, Marco Revelli e Domenico Scarpa, e una riproposizione della memorabile intervista (1984) di Alberto Papuzzi a Levi su alpinismo e libertà. Nel libro anche il racconto Ammutinamento di Levi e La scure di Rigoni Stern, che ognuno dei due scrittori dedicò all’altro. 

Percorrendola, i visitatori avvertiranno il forte sentimento dell’amicizia che correva tra uomini come Levi, Rigoni Stern e Revelli. E vedranno i tanti amici della gioventù, su tutti Alessandro Delmastro, con cui Primo condivideva le letture di Joseph Conrad, Jack London, Melville, e indimenticabili avventure di alpinismo. Al ritorno da Auschwitz Primo Levi non ritroverà molti visi cari: Delmastro, ad esempio, partigiano di Giustizia e Libertà, il 3 aprile 1944 era stato ucciso da un milite fascista con una mitragliata alle spalle, in una strada di Cuneo. Molti anni dopo, Levi ricorderà l’amico in Ferro, il più bel racconto di montagna del nostro Novecento. Mario Rigoni Stern e Primo Levi divennero amici nei primi anni Sessanta, ma le loro esistenze si sfiorarono in gioventù: una foto ritrae Rigoni nel febbraio del 1939, con i piedi saldamente piantati nella neve, davanti al Rifugio Sella e a uno dei suoi camini; un’altra, scattata poco più di un anno dopo, coglie Levi sul tetto del medesimo rifugio, a cavallo di quel camino. Entrambi hanno il viso segnato da una stanchezza felice e piena di speranze per il futuro, entrambi perderanno la libertà proprio in montagna: Levi venne catturato dai fascisti presso il Col de Joux in Val d’Aosta, insieme a Vanda Maestro (che morirà ad Auschwitz), a Luciana NIssin e al gruppo di partigiani di Giustizia e Libertà di cui facevano parte, Rigoni Stern dai tedeschi poco sopra la Val di Vizze, in Alto Adige, dopo l’8 settembre. Levi subirà Auschwitz, Rigoni gli Stammlager destinati ai soldati italiani che si rifiutano di aderire alla RSI di Mussolini.

L’esposizione si snoda seguendo otto chiavi di lettura: natura, materia, letteratura, trasgressione, riscatto, amicizia, scelta, liberazione. La sequenza di immagini e parole trasmette conoscenza ed emozioni, la bellezza delle montagne salite e ammirate da Levi lascia attoniti: l’Herbetet, la Becca di Montandayné, il Piccolo e il Gran Paradiso, la Testa della Tribolazione, i Picchi del Pagliaio con il Torrione Wolkmann, i Denti di Cumiana, Rocca Patanüa, lo Sbarüa, il Monte Disgrazia, le Grigne. Vedere i volti giovani e spensierati degli amici e dei compagni di cordata di Levi, saperli travolti pochi anni dopo dalle leggi razziali e dalla Shoah, colpisce nel profondo. Mi ha commosso vedere i due figli di Levi, Lisa e Renzo, camminare tra le grandi e piccole immagini del percorso espositivo, lo sguardo perso tra ricordi ed emozioni, personali e indecifrabili.

La montagna, per Levi ragazzo, era una passione che lo faceva sentire lontano dall’oppressione e dal conformismo della città, dove dominava il pensiero unico; un rimpianto durante la durissima prigionia ad Auschwitz, “E le montagne, quando si vedono di lontano … le montagne … oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne” si legge in Se questo è un uomo; un soffio di ritrovata bellezza e libertà dopo l’orrore della guerra e del lager.

Levi attribuirà proprio alla resistenza fisica e mentale acquisita in montagna, oltre che alla fortuna, l’essere sopravvissuto alla prigionia. L’impegno tenace profuso sulle alte cime era un modo per mettersi alla prova, per conoscere se stessi, possibilità e limiti. Do or die (fai o muori), questo il motto inciso sulla nave Judea del giovane protagonista di Gioventù, un romanzo breve di Conrad che Levi amava moltissimo, tanto da riportarne alcune pagine nel suo La ricerca delle radici. Svolgere con passione cose che diano un senso e uno scopo alla propria vita, non sprecare tempo nel futile e nel banale, questo il lascito di Levi ai giovani di ogni generazione.

All’inaugurazione era presente una rappresentanza del CAI, il vice presidente Giacomo Benedetti e Angelo Schena. Il Club AIpino Italiano ha accompagnato l’avvicinamento alla mostra sia nel numero di novembre sia in quello di gennaio della Rivista del CAI, con due approfondimenti su Levi e Rigoni Stern, e con un libro di Lorenzo Grassi sugli ebrei espulsi dall’associazione negli anni della dittatura. Un anno fa sono stati formalmente reintegrati: un segnale che sarebbe dovuto arrivare molto tempo prima, ma importante per la memoria, per ribadire che la libertà e i valori di civiltà vanno difesi ogni giorno e in ogni occasione. Ecco, questa mostra è un’occasione imperdibile per conoscere meglio un uomo che ha scritto opere di valore e di fama mondiale, e di cui non si finisce mai di scoprire qualcosa di nuovo e di importante: ogni volta che si apre un suo libro, ogni volta che si legge una sua lettera. Come quella che scrisse all’amico Rigoni Stern nel 1984, accompagnandola con una poesia, intitolata A Mario e a Nuto, che è incisa in una pietra esposta in mostra: “Ho due fratelli con molta vita alle spalle, nati all’ombra delle montagne. Hanno imparato l’indignazione nella neve di un Paese lontano, e hanno scritto libri non inutili. Come me hanno tollerato, la vista di Medusa, che non li ha impietriti. Non si sono lasciati impietrire dalla lenta nevicata dei giorni”. 

Sono in mostra anche gli sci di Primo, quelli rimasti ad Amay dopo la sua cattura. In un racconto, L’altra mattina sugli sci con Primo Levi, Rigoni immagina di percorrere una pista innevata con gli sci, dentro un bosco, in compagnia dell’amico, e di parlare con lui, ancora una volta. Tra cielo, alberi e neve, sino a una piccola radura: “Eravamo giunti al punto dove ero solito girare gli sci per il ritorno. Il sole, ormai allo zenit, entrava con i raggi tra la foresta facendo risaltare il candore della neve e il verde cupo degli abeti. Ero tutto concentrato sulla pista e sul coordinamento dei miei movimenti per non cadere, così che Primo mi lasciò andare” (in Sentieri sotto la neve, Einaudi 1998).

Primo Levi alla Capanna Margherita, anni Sessanta © Biblioteca nazionale Cai