Il segreto degli aghi dorati: intervista a Giorgio Vacchiano sul larice e il clima che cambia

Il larice è l'unica conifera nostrana a perdere tutti gli aghi in autunno. Giorgio Vacchiano ci spiega perché questa strategia evolutiva risulta vantaggiosa per la specie e al contempo quali sfide si trova ad affrontare il larice a causa del cambiamento climatico.

La stagione autunnale è ormai divenuta, per gli amanti dell’ambiente montano, sinonimo di fall foliage, letteralmente “fogliame autunnale”. Il fascino delle sfumature di cui si tingono i boschi, alpini e appenninici, aumenta anno dopo anno. Incamminarsi lungo i sentieri, che per una manciata di settimane sembrano trasformarsi in tavolozze di colore, regala all’animo una parentesi di silenziose emozioni e stimola la nostra attenzione. Quante volte vi sarà capitato di catturare con lo sguardo una sfumatura diversa dalle altre all’interno di un bosco, come il rosso delle foglie di un acero, il giallo intenso di un pioppo o l’oro di un larice? Quest’ultimo rappresenta una delle specie delle nostre montagne più facilmente riconoscibile e più ammaliante in autunno. I suoi aghi dorati risultano infatti un unicum nel panorama delle conifere. Avete mai visto un abete o un pino diventare dorati e perdere gli aghi come un faggio o una qualsivoglia latifoglia? Solo il larice lo fa. Ma perché? Abbiamo voluto affrontare questa curiosità in maniera scientifica e dettagliata con il dott. Giorgio Vacchiano, dottore forestale e ricercatore esperto di dinamiche boschive, che insegna Gestione e pianificazione forestale all'Università Statale di Milano.

 

Dott. Vacchiano, il larice è davvero l’unica conifera che perde gli aghi?

Il larice è l’unica conifera spontanea in Italia che perde gli aghi in modo sincronizzato e stagionale, ed è per questo che attira l’attenzione. Il genere Larix è circumboreale: specie diverse popolano Nord America, Siberia, Asia centrale. Tutte caducifoglie. Tuttavia non è l’unica conifera caducifoglia in senso assoluto: nel mondo esistono altri generi che fanno la stessa cosa, come Pseudolarix, Metasequoia, Taxodium (il cipresso calvo delle paludi nell'est americano) o Glyptostrobus. 

È importante chiarire anche un’altra cosa: tutte le conifere perdono gli aghi, ma non nello stesso modo. Abeti, pini, cipressi li rinnovano gradualmente: un ago può vivere da 2 a oltre 10 anni, poi cade e viene sostituito. Non lo fanno tutti insieme, non in autunno. Il larice invece concentra la caduta in una finestra precisa, ogni anno, dopo aver recuperato i nutrienti dagli aghi e "smontato" la clorofilla. Il colore dorato è infatti il risultato dei pigmenti (come i carotenoidi) che restano visibili quando la clorofilla scompare, e che continuano a lavorare per fotosintetizzare in modo efficace utilizzando la luce autunnale. E' una strategia evolutiva che si è affermata in ambienti molto freddi, con inverni lunghi e secchi, dove mantenere foglie "attive" non conviene.

 

C'è una ragione specifica per cui il larice li perde “tutti assieme”?

In autunno il larice interrompe la fotosintesi, recupera azoto e fosforo dagli aghi e smantella la clorofilla. Rimangono i pigmenti gialli e arancioni, poi gli aghi vengono separati dal ramo e cadono. È lo stesso processo che osserviamo nelle latifoglie. Perché farlo? Perché negli ambienti in cui vive – alta montagna, climi continentali freddi – l’inverno è troppo lungo, la luce dura poco, l’acqua è disponibile solo come ghiaccio. Mantenere foglie attive sarebbe troppo dispendioso dal punto di vista del bilancio energetico della pianta. Le altre conifere, come abeti o pini, invece hanno sviluppato aghi piccoli, spessi, rivestiti da cere, con stomi incassati. Non sono molto efficienti d’estate, ma funzionano anche con basse temperature e luce debole. Possono fare fotosintesi in inverno, appena le condizioni lo permettono. Hanno scelto la strategia della “foglia longeva”, il larice quella della “foglia stagionale ma efficiente”.

 

Dal punto di vista evolutivo: sono venute prima le conifere sempreverdi o quelle decidue come il larice?

Le conifere sono antiche, comparse oltre 300 milioni di anni fa, molto prima delle latifoglie decidue. I loro antenati erano probabilmente sempreverdi. La caducità è una strategia comparsa più tardi, evoluta più volte in gruppi diversi quando le condizioni lo richiedevano; per il genere Larix si stima un'origine a circa 50-60 milioni di anni fa. Successivamente, durante le glaciazioni del Pleistocene, alcune popolazioni si isolano nelle Alpi e nei Carpazi, dove evolvono in Larix decidua - il larice europeo che oggi conosciamo. È quindi una conifera relativamente “giovane”, figlia del clima glaciale e dell’isolamento post-glaciale.

 

Con il cambiamento climatico, quale strategia sarà avvantaggiata? E il larice ha un futuro?

Il larice è una specie che vive dove le stagioni sono marcate: estati luminose e relativamente fresche, inverni lunghi, freddi e secchi. Questa forte stagionalità ha reso vantaggiosa la caduta degli aghi, ma oggi il cambiamento climatico sta alterando proprio questo equilibrio. Alle quote più basse delle Alpi gli inverni sono più miti, ma soprattutto le estati sono più calde e secche. Nonostante le sue radici profonde, nei periodi caldi e secchi il larice è costretto a chiudere gli stomi per ridurre la perdita d'acqua per evaporazione, ma in questo modo blocca anche l’ingresso dell’anidride carbonica necessaria per la fotosintesi. Senza fotosintesi produce meno zuccheri, cresce poco, accumula meno riserve e diventa più vulnerabile agli insetti e alle malattie. Questo fenomeno è già osservabile: in molte aree delle Alpi meridionali si registrano riduzioni di crescita e aumento della mortalità. Alle quote più alte, invece, le temperature più miti ampliano lo spazio potenzialmente idoneo al larice. Le zone oggi troppo fredde o coperte da neve per gran parte dell’anno potrebbero diventare adatte alla colonizzazione, e infatti il limite superiore del bosco si sta già spostando verso l’alto di qualche metro ogni decennio. I modelli di distribuzione prevedono quindi un “trasloco altitudinale”: arretramento in basso, espansione in alto. 

Un altro aspetto decisivo per il futuro del larice è la sua riproduzione. Questa specie non produce semi ogni anno, ma alterna annate povere ad annate in cui concentra la fioritura e la produzione di semi in modo sincronizzato su larga scala: è il fenomeno della "pasciona", che permette di affamare i predatori negli anni di poco seme e aumentare quindi il successo della rinnovazione. Studi sul larice mostrano che il clima è determinante nel regolare la frequenza e l’intensità del masting: servono estati calde ma non siccitose e condizioni favorevoli anche nell’anno precedente. Il cambiamento climatico altera questi segnali, rendendo la sincronizzazione riproduttiva meno precisa e quindi meno efficace. 

Anche la competizione con altre specie influenzerà il futuro del larice. In molte zone alpine l’abbandono delle pratiche tradizionali – taglio, pascolo, apertura delle radure – porta a un progressivo aumento dell’ombreggiamento. Il larice è una specie che ama la luce, mentre altre conifere come il pino cembro, un tempo eliminate dai lariceti perché meno "utili",  tollerano meglio l’ombra e possono quindi tornare a insediarsi, formando boschi più misti e stabili. Di conseguenza, molte foreste di larice stanno lentamente evolvendo verso comunità con maggiore partecipazione e dominanza di cembro. In ogni caso, il larice resterà una specie pioniera importante dopo incendi, valanghe o schianti da vento, grazie alla sua grande capacità colonizzatrice.