La ovest del Cervino, la grande invernale

La storica prima scalata invernale della parete ovest del Cervino, nel 1978, tra coraggio, tempesta e tragedia.
La parete ovest del Cervino © Wikimedia Commons

Alla fine del 1977 si parla tanto della ovest del Cervino, una parete enorme e pericolosa, forse la più difficile della Gran Becca. Manca ancora l’invernale e i più forti sono pronti a partire. Il 21 dicembre 1977 le guide di Valtournenche incontrano la concorrenza dei fratelli Squinobal di Gressoney, ma il cattivo tempo non gli permette neanche di tentare. In compenso si accordano per riprovare insieme. È un inverno abbastanza cattivo, il Cervino è infarinato e spazzolato dal vento, poi la Befana porta un intervallo di alta pressione e risale la febbre dell’avventura. 

 

La ovest in inverno

Il 9 gennaio 1978 sette guide bivaccano sul ghiacciaio di Zmutt e il 10 salgono la prima metà della parete. Sono Marco Barmasse, Arturo e Oreste Squinobal, Leo Pession, Augusto Tamone, Nio Menabreaz e Rolando Albertini. Il secondo giorno di scalata il cielo si copre di nuvole e da ovest arriva la bufera. Non c’è tempo da perdere: uniscono le forze e formano una lunga cordata stringendo i denti e forzando gli strapiombi. Arrivano in cima prima di notte, ma in discesa ecco la disgrazia: “Sento come un richiamo disperato e un’ombra scura mi passa di fianco – scrive Barmasse sul diario di scalata –. Una forza istintiva mi spinge verso quell’ombra che è uno di noi… Un masso di mezzo quintale, trascinato da Rolando nella caduta, si abbatte su di me. Richiami dei compagni, grida. Non si vede più niente. Sento voci piene di sconforto. Qualcuno piange…”.

Barmasse ha la gamba rotta e le dita dei piedi insensibili. Il polpaccio e il ginocchio gonfiano a vista d’occhio. Gli amici lo massaggiano a turno per evitare il congelamento. Hanno montato la tendina da bivacco ma è una corazza gelata, rigida. Il vento stacca schegge di ghiaccio sui sacchi a pelo. Non devono addormentarsi, gli sarebbe fatale. Pensano ad Albertini, che potrebbe essere appeso alla corda a pochi passi da loro, forse vivo. Ma è impossibile uscire in soccorso nella notte di tempesta. Nell’alba lattiginosa scorgono una figura sepolta dalla neve. Rolando è morto.

“Dobbiamo scendere o è la fine – scrive Arturo Squinobal sulla Rivista della Montagna –. Con la corda rimasta formiamo la cordata. Nio (Menabreaz) scende per primo, conosce la cresta del Leone palmo a palmo. Lo segue Marco, calato da me, mentre Oreste, subito dietro, assicura tutti e tre. Leo e Augusto chiudono la fila. Davanti a noi c’è la spalla che conduce al Pic Tyndall: è in condizioni spaventose. Devono essere le nove del mattino. Nio tenta di superare l’intaglio: sotto i ramponi la massa di neve fresca mette a nudo un lastrone di ghiaccio vivo. Nio vola nel vuoto sul versante ovest. Fortunatamente la corda va in tensione e Nio si ferma. Ritorna sulla cresta e attacca pieno di rabbia. Marco si trascina su una gamba sola e procede a cavalcioni. Il suo fisico è sottoposto a uno sforzo continuo. Compie miracoli. Il gelo è tremendo; le mani sono insensibili e bisogna batterle con forza sulla piccozza per fare affluire il sangue; l’angoscia di un altro bivacco fa perdere ogni speranza, ma la volontà di arrivare a casa è talmente forte che tutti diamo il meglio e teniamo duro”.

Arrivano alla capanna Carrel alle sette di sera, che a gennaio vuol dire notte fonda. La porta del rifugio è bloccata da un metro di neve e devono scavare per farsi strada. Entrano, accendono il fuoco e passano la notte a sciogliere neve e frizionare le dita congelate. La bufera continua implacabile e il cielo non si apre. Devono aspettare, sperare, resistere. Restano bloccati tre giorni e tre notti, fino a domenica 15 gennaio, quando un elicottero svizzero coglie una schiarita e li porta in salvo.