Cesare Maestri da giovaneTra il 2 e il 9 giugno 1960 una cordata affronta lo strapiombo della Roda di Vael: “Alle 8 comincio a salire, un chiodo, una staffa, un altro chiodo, un’altra staffa. Tutti gli undici anni della mia carriera alpinistica mi vengono in aiuto su questa parete. Questa dovrà essere la vittoria della tecnica. Non ci saranno improvvisazioni, voli o tentennamenti. Vinceremo con la nostra volontà e con la nostra tecnica…”. L’episodio appartiene all’autobiografia di Cesare Maestri, il più famoso scalatore dolomitico del secondo dopoguerra, un uomo capace di gettare la corda nel vuoto dalla vetta del Crozzon di Brenta per scendere slegato e solo la mitica via delle Guide: sesto grado. Esattamente come Paul Preuss, Maestri diceva e mostrava che il vero rocciatore sa muoversi indifferentemente nei due sensi: salita e discesa. Era il suo rigoroso atto di fedeltà all’arrampicata libera. Ma Cesare era un provocatore, e una sola risposta non gli bastava. Siccome non c’è il sole senza la luna, si è cimentato anche nella scalata artificiale estrema, che era l’altra faccia della moneta. Da acrobata della vita ha affrontato il diritto e il rovescio dell’arrampicata. Con spirito teatrale e ribelle ha raccolto la sfida delle direttissime sulle pareti di calcare giallo e aggettante, dove al tempo degli elettrodomestici si dominava la gravità a forza di martelli, chiodi a pressione e scalette tintinnanti, tessendo di giorno una tela di ragno e riposando sulle amache di notte.
Sugli strapiombi
Finita la guerra, passata la sbornia patriottica delle spedizioni himalayane e sbollita la corsa ai quattordici Ottomila, gli esploratori della verticale temono di avere esaurito le pareti disponibili. Il miracolo economico, paradossalmente, coincide con la crisi dell’esplorazione. Dunque si punta sulla tecnologia e ci si rivolge agli strapiombi assenti sulle mappe zenitali, tracciando delle verticali astratte che non rispondono alla logica ma alla geometria. E allo spettacolo. Forando la roccia si può tirare dritto quasi ovunque, anche dove mancano le fessure. Le danze si aprono ufficialmente nel 1958, quando Dietrich Hasse, Lothar Brandler, Jörg Lehne e Sigi Löw inventano un itinerario diretto sulla paurosa parete nord della Cima Grande di Lavaredo, usando centottanta chiodi normali e dodici chiodi a pressione. Molto pochi, in verità. Salgono a sinistra della celeberrima via di Emilio Comici e dei fratelli Dimai, che negli anni Trenta era la frontiera estrema. La via a picco del 1958 appassiona e fa tendenza, così altri scalatori cercano soddisfazione e gloria sui rovesci di calcare dove le frane hanno mangiato la pancia delle pareti. Si sottopongono a estenuanti giornate di “lavoro” per scavalcare i soffitti e domare gli strapiombi. Qualcuno li chiama operai o manovali, ma loro non desistono: meglio essere degli operai all’onore del mondo che oscuri alpinisti ormai fuori tempo. Che sia un vicolo cieco? Ancora non si sa, ma sarà così.