Quando i pastori se ne vanno: il silenzioso ritorno del bosco

Negli ultimi decenni l’abbandono della pastorizia ha trasformato il paesaggio delle Alpi. Dove un tempo pascolavano bovini e pecore, oggi avanzano arbusti e giovani alberi e questo processo rischia di minacciare la biodiversità e l’identità culturale delle montagne.

Per secoli, gli ambienti montani sono stati modellati dalla gestione tradizionale del territorio, con lo sfalcio dei prati da fieno, il pascolo degli animali e il taglio del legname. I pascoli alpini sono un esempio distintivo dell’interazione tra esseri umani e risorse naturali. Oggi, però, la diminuzione della pastorizia tradizionale e l’abbandono dei pascoli ad alta quota stanno cambiando rapidamente il volto delle montagne: arbusti e boschi stanno riconquistando spazi un tempo aperti, riducendo la diversità e alterando i servizi ecosistemici. Di fatto, questi ecosistemi seminaturali, non sono solo luoghi di produzione e tradizione, ma serbatoi di biodiversità e di servizi ecologici fondamentali: regolano il ciclo dell’acqua, limitano l’erosione e offrono habitat a numerose specie vegetali e animali. Ma cosa succede davvero quando il pascolamento scompare? Capire come e perché questi ambienti cambiano è essenziale per immaginare strategie di gestione che mantengano vivo l’equilibrio tra ambiente e presenza umana nelle terre alte.

 

Dalla transumanza alla scomparsa dei pascoli

La pastorizia stagionale è una tradizione diffusa in tutto il mondo, e sulle Alpi è praticata fin dall’epoca medievale. Per secoli, la cosiddetta transumanza verticale portava ogni estate gli animali dalle vallate agli alpeggi, garantendo sostentamento alle comunità montane e mantenendo in equilibrio prati e pascoli. Questa gestione ha avuto effetti profondi sulla vegetazione: le foreste di conifere sono state frammentate, creando un mosaico di radure, arbusti e praterie, e la linea degli alberi si è progressivamente abbassata. Con il Novecento, però, lo spopolamento delle valli e la marginalizzazione dell’agricoltura hanno ridotto drasticamente l’attività pastorale. In molte aree alpine il numero di animali da pascolo è drasticamente diminuito e con essi si è ridotta la superficie dei prati da fieno e dei pascoli attivi. 
Le conseguenze di questo cambiamento sono ben documentate: due studi condotti in Austria nel 2003e in Italia nel 2010 hanno mostrato che l’abbandono della pastorizia ha provocato un netto declino della diversità vegetale. Nelle Alpi austriache, Dullinger e colleghi hanno infatti osservato che, dopo un secolo di abbandono, la varietà di specie diminuisce soprattutto a livello di paesaggio: le comunità vegetali diventano più omogenee e le specie tipiche dei prati soleggiati vengono sostituite da poche specie competitive e ombreggianti, come il pino mugo (Pinus mugo) a quote maggiori, e l’abete rosso (Picea abies) e il larice (Larix decidua) a quote inferiori. Il lavoro di Targetti e colleghi in Veneto ha confermato la stessa tendenza: la superficie dei prati è calata e molte specie di prateria sono scomparse, mentre arbusti come il rododendro (Rhododendron ferrugineum), il ginepro (Juniperus communis subsp. alpina) e il mirtillo (Vaccinium myrtillus) hanno riconquistato i versanti, avviando una lenta ma irreversibile successione verso il bosco. È proprio grazie agli animali al pascolo, che brucano i giovani germogli di arbusti e alberi, se il bosco rallenta la sua avanzata e il paesaggio alpino conserva ancora le sue praterie fiorite e ricche di biodiversità.

 

Quando il pascolo scompare, il bosco ritorna

Il passaggio da prateria a boscaglia non è immediato né lineare: si tratta di un vero e proprio cambio di stato dell’ecosistema. Secondo il modello “state-and-transition proposto da Targetti e colleghi nel loro studio del 2010, i pascoli alpini possono trovarsi in differenti condizioni più o meno stabili, determinate dall’intensità e dalla continuità della gestione. In uno stato di “pascolo produttivo”, il pascolo e lo sfalcio mantengono una copertura erbacea dominata da specie tipiche dei prati stabili, per lo più Graminacee, come festuca rossa (Festuca rubra). Se però l’attività di pastorizia scompare, si passa allo stato di “pascolo povero” con poche specie dominate dalla presenza di nardo (Nardus stricta), una graminoide non appetibile per gli animali da pascolo. Tuttavia, superata una certa soglia, ad esempio, quando la copertura arbustiva supera un certo livello, l’ecosistema entra in una nuova fase, “pascolo invaso da arbusti”, dominata da specie legnose, per lo più Ericacee, che modificano profondamente la struttura e la composizione floristica. In questa condizione, la semplice ripresa del pascolo non è più sufficiente a riportare la prateria allo stato originario: servono interventi intensivi come il taglio meccanico, il fuoco controllato o la risemina delle specie erbacee caratteristiche. In altre parole, mantenere una prateria aperta richiede molto meno sforzo che ricostruirla dopo la sua scomparsa. Ogni stagione di pascolo contribuisce a tenere viva una dinamica storica che impedisce al bosco di chiudere il paesaggio e preserva l’habitat di prateria. La tutela dei pascoli alpini, quindi, non può prescindere dal mantenimento di un minimo livello di gestione tradizionale: senza sfalcio e pascolo, questi habitat evolvono rapidamente verso forme boscate, perdendo le specie che li rendono unici.
Le praterie alpine non sono solo un elemento del paesaggio, ma un patrimonio naturale tutelato anche a livello europeo. Esse sono infatti riconosciute come habitat di interesse comunitario, essenziali per la conservazione di numerose specie vegetali e animali dalla Direttiva Habitat (92/43/CEE). Questa direttiva è una norma europea nata per proteggere gli habitat naturali e seminaturali, le specie animali e vegetali più importanti del continente, attraverso la rete ecologica “Natura 2000”. Conservare le praterie alpine significa dunque salvaguardare non solo la biodiversità, ma anche il legame storico tra le comunità montane e il loro territorio.

 

Conservare la biodiversità con la pastorizia estensiva 

Un contributo importante arriva anche da una ricerca condotta da Herrero-Jáuregui e Oesterheld (2017), che ha analizzato decine di studi sul rapporto tra intensità di pascolo e diversità vegetale in ecosistemi erbacei di tutto il mondo. I risultati mostrano che la variazione della ricchezza e della diversità delle specie è in genere contenuta, ma un aumento eccessivo della pressione di pascolo tende a ridurle, soprattutto nei sistemi aridi e poco produttivi. Ridurre ulteriormente il pascolo, invece, non comporta cambiamenti significativi, anche se l’esclusione totale può favorire l’espansione di specie legnose e la perdita di habitat aperti. Nel complesso, lo studio evidenzia che gli effetti del pascolo sulla composizione delle specie sono molto più marcati di quelli sul numero totale di specie, suggerendo che non è tanto “quante” specie ci siano a cambiare, ma quali. Queste evidenze confermano l’importanza di una pastorizia estensiva e sostenibile: un disturbo moderato e diffuso aiuta a mantenere la complessità strutturale delle praterie e a prevenire l’avanzata degli arbusti. Questo equilibrio tra disturbo e stabilità segue l’ipotesi del disturbo intermedio, secondo la quale la diversità biologica è massima quando un ecosistema è sottoposto a un disturbo di media intensità: sufficiente a evitare la dominanza di poche specie, ma non tanto forte da compromettere la sopravvivenza delle più sensibili Per questo, i progetti europei e le politiche agroambientali che promuovono il pascolo controllato sono fondamentali per la conservazione della biodiversità e del paesaggio.

Le praterie alpine sono molto più che semplici spazi erbosi: sono archivi viventi di biodiversità e cultura. La sfida oggi è mantenere vivo questo equilibrio fragile, dove biodiversità e tradizione convivono. Riportare gli animali in quota non è solo una scelta economica o ecologica, è un gesto di cura verso le montagne stesse, perché senza pascolo, le Alpi rischiano di perdere la loro identità aperta e luminosa.