“Quell’evento cambiò la mia vita”: Catherine Destivelle racconta SportRoccia 1985

Dalla vittoria a SportRoccia 1985 alla carriera internazionale, la fuoriclasse francese ripercorre le origini delle competizioni e riflette sull’evoluzione dell’arrampicata di oggi.

Catherine Destivelle è stata un simbolo, anzi, un vero e proprio mito della scalata e dell’alpinismo negli anni Ottanta e Novanta. Le sue realizzazioni in falesia (è stata la prima donna al mondo a salire una via di 8a+) e le sue grandi ascensioni sulle Alpi (come la via aperta nell’inverno del 1991 sul Petit Dru in 11 giorni di arrampicata solitaria, o la prima solitaria femminile della via di Bonatti alla Nord del Cervino) hanno fatto sognare generazioni di appassionati.

L’abbiamo incontrata a Bardonecchia, in occasione delle celebrazioni per i 40 anni di SportRoccia, la prima competizione internazionale di arrampicata, di cui fu la vincitrice indiscussa. È stata l’occasione per rievocare con lei il contesto storico e culturale che ha portato alla nascita della moderna scalata sportiva, e per sentire il suo punto di vista sulla realtà odierna di questa disciplina.

 

Catherine, tu sei stata una dei firmatari del famoso “Manifesto dei 19”, con cui alcuni dei migliori freeclimber delle origini si schierarono contro le competizioni di arrampicata. Cosa ti spinse poi a cambiare idea e a partecipare a SportRoccia e alle gare organizzate negli anni successivi?

La mia partecipazione a SportRoccia 85, in realtà, è nata da circostanze abbastanza casuali. Sino ad allora non avevo mai partecipato alle gare e, nei quattro anni precedenti, mi ero anche un po’ allontanata dal mondo della scalata. Avevo iniziato ad arrampicare da giovanissima, attorno ai 15 anni, dedicandomi in un primo tempo all’alpinismo classico e poi alla nascente arrampicata libera. All’inizio degli anni 80, però, avevo rallentato l’attività, per dedicarmi agli studi e al lavoro di fisioterapista. Quindi, quando mi presentarono il cosiddetto “Manifesto dei 19”, lo firmai senza troppo pensarci, perché per me la scalata era quella che avevo conosciuto sino ad allora: una realtà molto distante da quella agonistica. All’inizio del 1985 Robert Nicod mi propose di partecipare alle riprese di “È pericoloso sporgersi”, il suo film sulle Gole del Verdon, e in quell’occasione tornai ad arrampicare sulle alte difficoltà, salendo in libera e in pochi tentativi una via di 7b+. A seguito di quell’exploit, il mio amico Lothar Mauch (fortissimo alpinista degli anni 60 – ndr) insistette perché partecipassi alla prima competizione internazionale di arrampicata prevista per quell’estate a Bardonecchia. Senza sapere bene a cosa stessi andando incontro accettai e, con mia grande sorpresa, vinsi la gara! Quell’evento cambiò la mia vita: nei successivi quattro o cinque anni mi dedicai quasi completamente alle competizioni e all’arrampicata sportiva. I risultati ottenuti mi portarono notorietà e sponsor. Quella realtà, in cui ero capitata quasi casualmente e senza troppa convinzione, diventò il mio mondo e, sostanzialmente, divenni un’arrampicatrice sportiva professionista, anche se non abbandonai mai la mia originaria passione per l’alpinismo.

 

Nel “Manifesto dei 19” si evidenziavano diversi timori nei confronti dell’avvento delle competizioni di arrampicata, ad esempio quello che le regole delle gare potessero in qualche modo ingabbiare lo spirito esplorativo e avventuroso della scalata. Questi timori sotto molti punti di vista sono divenuti realtà. È stato un danno o è stato un booster per l’evoluzione di questo sport?

I timori evidenziati dal Manifesto erano sicuramente reali: nelle competizioni, e più in generale nell’arrampicata sportiva, l’aspetto tecnico e atletico è divenuto predominante, quasi esclusivo. È un po’ come nella ginnastica: l’obiettivo diventa quello di eseguire alla perfezione i movimenti, per poter salire il più in alto possibile. Questa è l’essenza dell’arrampicata sportiva, ma non l’essenza della scalata intesa in senso più ampio. Io ho praticato lo sport climbing, ho amato le competizioni e l’arrampicata in falesia, ma per me anche gli altri aspetti sono sempre stati fondamentali e non ho mai voluto rinunciarvi. Ho continuato ad andare in montagna, dove l’elemento dell’avventura è fondamentale, così come il piacere e la capacità di intuire una linea, “leggere” la roccia ed entrare in sintonia con l’ambiente naturale. Certo, ai nostri tempi era più semplice far convivere questi aspetti: se eri un bravo arrampicatore su roccia, potevi stare ai massimi livelli anche nelle gare. Con lo sviluppo della scalata indoor le strade si sono separate sempre più e, sicuramente, se oggi vuoi essere un vincitore nelle competizioni, devi dedicarti esclusivamente a quell’attività. Forse qualcosa si è perso in questa evoluzione, ma credo anche che l’avvento delle palestre indoor abbia rappresentato un vantaggio dal punto di vista della tutela dell’ambiente. Continuare a svolgere le competizioni su roccia avrebbe avuto un impatto troppo invasivo sulle falesie.

 

Il tuo rapporto con la montagna è cominciato con l’alpinismo classico, poi sei passata alle competizioni e infine sei tornata all’alpinismo. Quanto è stata importante l’esperienza delle gare e dell’arrampicata sportiva nel determinare l’evoluzione del tuo ritorno alla montagna?

È cambiata la visione, l’ottica con cui ho affrontato le salite in montagna. Già da giovanissima avevo affrontato alcune grandi e difficili vie delle Alpi, ma sempre nella prospettiva che fino ad allora aveva caratterizzato l’alpinismo: l’obiettivo era salire, completare la via e raggiungere la cima, lo stile non importava più di tanto. L’esperienza dell’arrampicata sportiva e delle gare ha poi condotto me e gli altri scalatori di quel periodo a fare una distinzione di valore tra un’ascensione portata a termine utilizzando i chiodi per la progressione e una compiuta in arrampicata libera, cioè usando chiodi, nut e friend solo per proteggersi, salendo solo grazie agli appigli offerti dalla roccia. È stato come scoprire un nuovo orizzonte inesplorato e nuove sfide: c’erano tutte le grandi classiche delle Alpi ancora da affrontare in questo stile e c’era un terreno infinito di linee ancora da inventare.

 

Negli anni 80 e 90 tu sei diventata un simbolo dell’alpinismo ai massimi livelli. Non un simbolo dell’alpinismo femminile, ma dell’alpinismo in assoluto. Evidentemente in quegli anni c’è stato un cambio di mentalità nel modo di considerare il valore e le potenzialità delle donne nell’alpinismo. Quanto è stato importante l’avvento delle gare e dell’arrampicata sportiva in questo cambiamento, che forse solo oggi si sta affermando pienamente?

È vero, l’arrampicata sportiva ha cambiato il modo di concepire la presenza femminile nell’alpinismo, che fino ad allora era stata sempre relegata a un ruolo secondario. Però non è stato un cambiamento consapevole e perseguito in modo esplicito. Era la normalità della nuova realtà che stavamo vivendo. Io facevo quello che mi piaceva, quello che mi veniva spontaneo. Scalavo con i miei amici maschi e con altre ragazze, facevamo questa cosa nuova che era l’arrampicata sportiva, esploravamo insieme questa dimensione, senza pensare a distinzioni o rivendicazioni di genere. Forse questo sguardo, che mi ha sempre caratterizzato, deriva dal fatto che io ho cominciato a scalare sui massi di Fontainebleau, dove l’arrampicata era un “gioco” aperto a tutti: ci sfidavamo sui passaggi e chi era più bravo passava, senza stare a pensare se quello che stavamo facendo fosse troppo pericoloso o troppo difficile per una ragazza. Poi per me è stato spontaneo portare questo approccio senza pregiudizi anche in montagna: se affrontavo una salita con un compagno, era comunque naturale andare in alternata. Ciascuno saliva da primo di cordata il tiro che gli spettava, non ci passava assolutamente per la testa che le lunghezze più dure o più pericolose dovessero spettare al maschio di turno…

 

Quarant’anni fa alla base della Parete dei Militi di Bardonecchia, c'erano tantissimi ragazzi e ragazze che stavano dando vita a una visione assolutamente nuova della scalata. C'erano sicuramente tante aspettative, tante speranze. Quali si sono realizzate e quali invece sono svanite col tempo?

L’arrampicata sportiva e le competizioni hanno portato tantissime persone ad appassionarsi di quel gioco meraviglioso che è la scalata, e questo è sicuramente una cosa positiva, che ha reso più bella e più piena la vita di molte persone, così come è stato per noi. Ma l’odierna frequentazione di massa ci pone nuove sfide, perché le falesie sono un ambiente fragile che richiede molta attenzione e il rispetto di certe regole di comportamento che oggi molti ragazzi, provenienti dalle sale di arrampicata indoor, non conoscono. C’è sicuramente un problema di educazione che dobbiamo affrontare e anche un problema di iperfrequentazione e di esaurimento del terreno a disposizione. Nel sud della Francia ormai quasi ogni parete è stata chiodata e quelle più conosciute sono frequentate ogni giorno da centinaia di persone, con un impatto sull’ambiente naturale che dobbiamo imparare a gestire. Penso che il movimento degli scalatori debba prendere coscienza di questo cambiamento e cercare soluzioni condivise.