Tragedia sulle Grandes Jorasses: Quando l'esperienza non basta

La tragica scalata di Olivier e Charlotte sul Monte Bianco mostra come l’eccesso di sicurezza possa trasformare una sfida in una condanna.
Le Grandes Jorasses © Wikimedia Commons

L’eccesso di sicurezza può fare molto male. Il primo novembre 2011 la guida savoiarda Olivier Sourzac parte con la parigina Charlotte De Metz per le Grandes Jorasses, sul versante francese del Monte Bianco. Olivier è forte, esperto e sicuro di sé. Charlotte è brava e si fida di Olivier. Hanno scalato insieme le vie difficili delle Alpi occidentali e sono già stati anche sulla parete nord delle Grandes Jorasses, che è tetra, altissima e meravigliosa, e offre agli alpinisti una specie di accesso facilitato, il Linceul, un fazzoletto di ghiaccio appiccicato alle verticali della grande Nord, senza roccia e senza strapiombi, così liscio e regolare che con le piccozze arcuate si può salirlo rapidamente raggiungendo la vetta delle Jorasses in meno di una giornata. Ai primi salitori René Desmaison e Robert Flematty, nel lontano 1968, il Linceul richiese molti giorni di arrampicata con temperature rigidissime, e René fu anche accusato di approfittarne per trasmettere in diretta le sue peripezie, ma si era ancora ai tempi della tecnica tradizionale e scalare un muro di ghiaccio richiedeva lo scavo di centinaia di scalini. Invece Sourzac e De Metz hanno le piccozze da piolet-traction e sarà tutto un altro gioco.

 

Una gara contro il tempo

Un giorno di bel tempo è quanto i bollettini meteorologici concedono la sera del primo novembre. Un ultimo giorno di cielo sereno prima che la depressione raggiunga la Francia orientale e sulle Prealpi si affacci il fronte nuvoloso. Le previsioni dicono che la perturbazione porterà “precipitazioni intense, anche di natura alluvionale”, quindi c’è poco da stare allegri, ma Sourzac è sicuro di uscire in tempo.

Un giorno mette in conto Olivier, dopo aver consultato il servizio meteorologico di Chamonix. Lui e la sua cliente hanno giusto le ore che servono, basta non cincischiare. Devono essere in cima entro le quattordici, le quindici al massimo, per scendere al rifugio Boccalatte prima di sera e della tempesta. Partire di notte con le pile frontali e andare come orologi, leggeri e determinati, in barba alla depressione atlantica. Sourzac l’ha già fatto ed è sicuro di poterlo rifare con Charlotte.

Invece i francesi perdono la gara. Probabilmente la mattina del 2 novembre si attardano nella scalata e diventano alpinisti del pomeriggio, uscendo sfiniti nella nebbia. Bivaccano a quattromila metri senza il sacco piuma. Nella notte la perturbazione li inghiotte. Olivier chiede aiuto con il cellulare, prima una telefonata di avvertimento, poi chiamate sempre più disperate e inutili perché i soccorsi non possono muoversi con la tempesta. Ormai il cielo è sigillato sopra i duemila metri e gli elicotteri non sono in grado di alzarsi con il vento a cento chilometri orari. Raggiungerli a piedi è impossibile per le valanghe. I due alpinisti sono condannati.

Olivier e Charlotte muoiono “in diretta” sulla via di discesa dalle Grandes Jorasses, come Rob Hall sulla cima dell’Everest. I giornali seguono la tragedia e il pubblico vorrebbe capire, conoscere, giudicare, però nessuno può dire che cosa sia successo sul candido Linceul mentre gli alpinisti si arrampicavano e il lenzuolo era un velo baciato dal sole, prima che la nebbia coprisse il sudario. Il mistero prevale sulle ipotesi e la morte spegne le morbosità. Una settimana dopo, alla prima schiarita, i soccorritori della Guardia di Finanza raccolgono le due salme sotto uno spuntone di roccia ricamato dal gelo. Bellezza e tragedia si fondono nel quadro, mi racconta Daniele Ollier.