Il Ghiacciaio della Marmolada © Archivio CAIQuando la montagna presenta il conto, si può soltanto vestire il ruolo di attori senza copione.
Chi, per pura casualità, si trova in quel determinato posto in quel preciso istante. E chi, da casa, aspetta di rivedere la persona a cui vuole bene. Non si tratta di posti sbagliati o momenti sbagliati. O meglio: non sempre.
La colpa può avere le sue giuridiche e tradizionali sfumature: imperizia, imprudenza, negligenza. Distinzioni che segnano il confine tra un’attività ben riuscita e una potenziale missione di soccorso. L’imponderabile, invece, si muove in solitaria. Sfugge al controllo anche del più attento, del più meticoloso. Perché non ha forma, né natura e, purtroppo, spesso nemmeno un vero senso.
Tre anni fa, sulla regina delle Dolomiti, la Marmolada, undici alpinisti vennero travolti da una non meglio definibile massa di ghiaccio e detriti.
L’imponderabile si rivelò nella più terribile delle sue forme.
Tra di loro c’erano persone che quei luoghi li conoscevano forse meglio del tragitto casa-lavoro e nessuna delle vittime ha ha minima colpa riguardo ciò che è accaduto. E tanto meno chi, a casa, le aspettava.
Ma l’impensabile può accadere. E quando accade, l’automatismo più frequente è lasciare che il senso di colpa diventi l’unico rifugio del dolore.
Quando una persona rimane in montagna, la pietosa caccia alle streghe di chi, a casa, non vedrà tornare nessuno, diventa un disperato tentativo di trovare giustizia. Ma è nulla più di una risposta irrazionale al dolore, salvo palesi responsabilità.
Ogni volta che saliamo in montagna, dentro di noi dobbiamo portare una piccola, sottile paura di non tornare.
È proprio questo sentimento che, nelle situazioni di rischio prevedibili, può determinare il nostro destino.
“La paura è come la fame e il sonno. Quando hai paura, se non ascolti la paura, ti fai male. La paura è quella che mi ha permesso di tornare a casa”, afferma Simone Moro, alpinista indiscutibile, più volte sopravvissuto a situazioni davvero al limite.
Ma ci sono volte in cui nemmeno la paura basta a salvare.
Quando l’imponderabile arriva a far visita, non c’è istinto, esperienza o prudenza che tenga.
Non c’è spiegazione. Solo silenzio e un tempo sospeso.
E chi rimane? Deve avere la forza di non cadere nel tranello della retorica.
Perché, dopotutto, chi è andato, forse nell’ultimo dei suoi istanti, avrà pensato: “È un bel posto quassù, nonostante tutto", e chissà che, proprio in quel pensiero, non ci sia un frammento di pace.
Una resa dolce all’immensità, un ultimo sguardo su un mondo che, per quanto ostile, sa restituire una bellezza che consola anche nell’estremo.
Chi ama la montagna sa che essa accoglie e custodisce, e che certi silenzi sanno parlare più di ogni spiegazione.
Ed è forse in quel silenzio che, chi resta, può trovare un modo per andare avanti.