67 anni fa, la prima ascensione del Kangchenjunga

A cinquant’anni dal primo tentativo di salita, il 25 maggio 1955 due alpinisti al seguito della spedizione nazionale britannica diretta da Charles Evans si fermarono pochi metri sotto la cima più elevata del massiccio, in segno di rispetto per la sacralità del luogo
25 maggio 1955, ore 14.45. Due alpinisti britannici, George Band, 26 anni, una laurea in geologia a Cambridge e veterano della spedizione del 1953 all’Everest, e Joe Brown, un anno meno del compagno di cordata, leggendario climber di Manchester che nella vita di tutti i giorni sbarcava il lunario lavorando come muratore, arrivano per la prima volta in assoluto sulla sommità del Kangchenjunga (8586 m), terza montagna più alta della Terra. Rispettando però l’accordo siglato qualche settimana prima dal capospedizione Charles Evans con il governo del Sikkim, evitano di salire i pochi metri che danno accesso allo spuntone più elevato del poderoso massiccio himalayano, in segno di rispetto per la sacralità della cima. L’ascensione si è rivelata lunga, dura e difficile, soprattutto nell’ultima parte, dove il superamento di una fessura nella roccia ha richiesto tutta l’abilità e la forza di Joe Brown. Quel giorno, dalla sommità del Kangch, oltre il mare di nubi che ricopre la catena himalayana, sbucano solo la vetta dell’Everest e del Lhotse; e si intravvede anche la cima del Makalu, che la spedizione francese di Jean Franco ha salito dieci giorni prima.
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Il massiccio del Kangchenjunga © Carsten.nebel - Wikimedia Commons

Cinquan’anni di tentativi

Il grandioso panorama dispensato dalla vetta è l’epilogo di una lunga storia di tentativi di salita cominciati nel 1905, che hanno visto susseguirsi sulle pendici della montagna personaggi come Aleister Crowley e Jules Jacot-Guillarmod, Paul Bauer e Günter Oscar Dyhrenfurth; e prima ancora esploratori del calibro dei fratelli Schlagintweit, di Douglas W. Freshfileld e di Vittorio Sella. Una storia poco conosciuta dagli alpinisti di casa nostra, attratti soprattutto dalle vicende del K2, dell’Everest e dell’Annapurna, ma che ha nutrito abbondantemente l’epopea della conquista dell’Himalaya. Su un massiccio montuoso dalle dimensioni immense, al confine tra il Sikkim e il Nepal, con quattro cime che superano abbondantemente gli 8000 metri e una che tocca quota 7900, relativamente vicino al Golfo del Bengala (da cui dista poche centinaia di chilometri) e soggetto ai capricci del tempo e a terribili bufere.

Con le bombole in via di esaurimento

Il 25 maggio 1955, sulla vetta del Kangchenjunga, la residua dotazione di ossigeno a disposizione dei due scalatori è ormai molto scarsa. Ciascuno di loro ha portato con sé una bombola con una carica sufficiente per sette ore di scalata (il flusso medio dell’ossigeno era di circa quattro litri al minuto). Un errore di percorso ha però atto perdere loro un’ora e mezzo sul ruolino di marcia. Sarebbero dovuti scendere dalla vetta entro le 13, per poter rientrare in sicurezza; invece l’ascensione si è protratta ben oltre le previsioni iniziali.
L'’itinerario della prima salita al Kangchenjunga © Dal libro
L'’itinerario della prima salita al Kangchenjunga © Dal libro "I quattordici Ottomila" di Mario Fantin, ed. Zanichelli, 1964

Al buio verso il campo VI

George Band e Joe Brown rimangono sulla sommità del Kangchenjunga solo un quarto d’ora, giusto il tempo per riprendere fiato e scattare le foto di rito. Poi si affrettano a scendere: mancano due ore al tramonto e sanno bene che presto dovranno cercarsi la strada al buio e senza poter far conto sulla scorta di ossigeno. Un’ora dopo, la bombola di Joe non dà più segni di vita; quella di George funziona un po’ più a lungo, poi anch’essa si esaurisce. A quel punto la cordata britannica si disfa della zavorra, ormai inutile, e continua a divallare, lottando contro la stanchezza. A un tratto, d’improvviso, Band scivola, ma riesce miracolosamente a fermarsi frenando la caduta con la piccozza; lo sforzo lo sfinisce. Quando George e Joe arrivano alla tendina del loro ultimo campo, dove nel frattempo sono arrivati i compagni Norman Hardie e Tony Streather, è buio da un pezzo. Lassù, a quota 8200, la notte è tremenda, Joe è tormentato da una forte oftalmia e i suoi compagni rimangono rannicchiati alla bell’e meglio nella tendina che sporge di venti centimetri nel vuoto. Ma c’è una fine anche per le situazioni più difficili: il giorno seguente Band e Brown arrivano sani e salvi al campo V, mentre Hardie e Streather calcano a loro volta la cima, riuscendo incredibilmente ad aggirare il risalto roccioso prima della vetta che aveva fatto dannare Joe Brown. Una pagina di storia bella e limpida, da rileggere con attenzione.