Partiti lo scorso 16 luglio con l’ambizione di scalare e sciare Broad Peak (8051 m) e K2 (8611 m), Marco Majori e Federico Secchi si sono resi protagonisti di una stagione complessa, dove le condizioni meteo hanno influenzato in modo importante strategie e tempistiche di salita. Un sogno condiviso tra due amici di sempre, tracciare una linea effimera sulla seconda montagna della Terra, qualcosa fino a oggi riuscito solo al polacco Andrzej Bargiel. Un obiettivo per cui la montagna deve essere in condizioni perfette, la via di salita deve essere in condizioni perfette.
Rientrato a casa Marco Majori ci racconta oggi il loro tentativo di vetta, con la cima raggiunta solo da Federico Secchi, la sua rinuncia, la caduta nel crepaccio e l’odissea che ne è seguita, fino al felice rientro a campo base accolto da una moltitudine di alpinisti resisi disponibili per dare una mano in una spedizione che non è certamente stata perfetta ma che ha avuto un risvolto umano sorprendente.
Marco, quando e come nasce il sogno di sciare il K2?
Si tratta di un progetto nato dalla visione di Federico Secchi, in cui ha voluto coinvolgermi. Un sogno sicuramente complesso, che fin da subito mi ha visto meno entusiasta rispetto a lui, non tanto sull’idea di salire il K2, quanto sulla parte che riguardava lo sci.
Come mai?
Sia io che Federico abbiamo compreso fin da subito quanto fosse complesso, come tutto doveva essere perfetto per riuscirci. Una condizione che quest’anno non abbiamo visto nemmeno lontanamente: abbiamo iniziato a sciare con una condizione di zero visibilità e con le energie ridotte all’osso.
Nel 2018 Andrzej Bargiel ha sciato il K2 per la prima volta. Un exploit a lungo ritenuto impossibile. Dopo questa tua esperienza quanto ritieni difficile e complesso scendere con gli sci dal K2?
È fattibile, ma va organizzata alla perfezione. Devi avere fortuna e non puoi permetterti di fare una salita faticosa per poi pretendere di sciare. Devi avere la traccia perfetta in salita, ben battuta, non puoi permetterti di sprecare energie a caso.
Com’è andata la vostra salita?
Abbiamo sbagliato le tempistiche, pensavamo di essere più veloci, ma non lo siamo stati. Abbiamo commesso alcuni errori di valutazione che hanno avuto come risultato che Federico ha raggiunto la vetta tardi, mentre io mi sono trovato costretto a rinunciare. In tutto questo abbiamo portato gli sci in spalla fino in cima e li abbiamo riportati giù allo stesso modo, direi che è un ottimo indicatore per dimostrare che qualcosa non ha funzionato.
Il tratto che avete sciato?
Da campo 4 al campo 3 circa. Io poi, in questo tratto, ho perso l’orientamento e sono finito in un crepaccio. Me ne sono tirato fuori, ma non ero più in grado di sciare. Sarebbe stato sciare dalla vetta, arrivando in cima con la luce giusta, con il tempo giusto.
Facciamo qualche passo indietro. Prima di cimentarvi con il K2, tu e Federico avete realizzato un tentativo sul Broad Peak, anche qui con gli sci…
Il nostro obiettivo era quello di salire il Broad Peak per acclimatarci in vista del K2, e volevamo scendere con gli sci. Quando, a metà luglio, abbiamo provato la vetta stavamo bene. Siamo saliti fino a 7000 metri, dove abbiamo dormito, e poi siamo scesi utilizzando gli sci. Una neve fantastica. Alla fine abbiamo rinunciato alla vetta perché non c’era ancora la traccia negli ultimi mille metri di salita e non era il caso che salissimo noi, senza bombole, a tracciarla.
Come mai non avete riprovato più avanti, dopo l’apertura della via per la vetta?
L’unica finestra buona si è presentata in concomitanza con quella del K2 e abbiamo dovuto scegliere se concentrarci sul K2, il nostro vero obiettivo, o riprovare. Abbiamo scelto la prima opzione.
Arriviamo allora al vostro tentativo di vetta sul K2. Ce lo racconti?
Il tentativo è nato insieme alla spedizione “K2 70”. Il 26 luglio siamo partiti dal campo base dopo cena io, Federico Secchi, Federica Mingolla e Silvia Loreggian. A ripensarci oggi, forse, la partenza notturna non si è rivelata molto efficace perché così facendo abbiamo perso la prima notte e accumulato ore di sonno che ci siamo portati dietro lungo tutta la salita.
La mattina del 27 abbiamo raggiunto campo 2 e qui sono crollato dal sonno. L’idea era quella di riposare un paio di ora, invece siamo rimasti fermi almeno 5 ore. Dopo siamo ripartiti e abbiamo raggiunto campo 3. Devo dire che stavo molto bene, anche se ero di nuovo molto assonnato. Sarebbe stato inutile continuare e portarci dietro il sonno che, tra l’altro, si sarebbe acutizzato anche a causa della quota. Così abbiamo deciso di fermarci per la notte, la stessa notte in cui tutti partivano per raggiungere la vetta.
Poi?
Al mattino siamo ripartiti e abbiamo raggiunto campo 4, che io e Federico abbiamo lasciato intorno alle 2.30 del 29 luglio puntando alla vetta. Inutile dire che alle 16.30 locali Federico ha toccato gli 8611 metri del K2, mentre io ho girato le spalle a circa 8500 metri di quota.
Come mai questa decisione?
Avevo circa un’ora e mezza di distacco da Federico. Mantenendo quel ritmo sarei arrivato in vetta alle 18. Dal campo base, via radio, Agostino Da Polenza continuava a chiamarmi per dirmi di tornare indietro, sarei arrivato in vetta troppo tardi.
È stata una decisione sofferta?
Vedevo la vetta, era poco sopra di me. Ma non è tanto la rinuncia alla cima, mi spiace di aver avuto sfortuna. Nel giorno in cui dovevo essere più in forma in realtà ero lento. La testa stava bene, ma il mio corpo non riusciva ad andare più veloce. Ero fermo e non riuscivo ad aumentare il ritmo. In quota succede.
Così decidi di rinunciare e inizi a scendere verso campo 4…
Per avere meno peso e cercare di recuperare il gap che mi separava da Federico avevo lasciato gli sci in cima al Collo di Bottiglia. In discesa mi sono fermato a recuperarli e poi ho continuato fino alla tendina del campo. È stato molto particolare questo momento.
Come mai?
Eravamo soli, non c’era nessun altro sulla montagna, a quella quota. Sei lì, immerso in questi panorami, fai quei passaggi che hai letto mille volte nei libri degli alpinisti, di Bonatti, ti rendi conto della storia. Capisci cosa è successo, cosa hanno vissuto, percepisci come poteva essere al tempo. Essere da soli ad altissima quota, con la luce che si abbassa.
Dopo qualche ora di riposo in tenda, il mattino seguente tu e Federico iniziate la discesa, sci ai piedi, giusto?
Esatto. Passiamo la notte a campo 4, la nostre terza notte sopra i 7200 metri, e il mattino mettiamo gli sci per scendere a campo 3. Prima abbiamo valutato se scendere o meno per la Via Česen. Sono stato onesto e ho detto a Federico che non me la sentivo, non avevo energie a sufficienza per una discesa così impegnativa. Però gli ho anche detto che se voleva poteva andare, in fondo era il suo sogno. Alla fine abbiamo deciso di rinunciare: la visibilità non era perfetta e i droni non sarebbero riusciti a dare le giuste indicazioni a causa della nuvolosità. Una discesa così se la fai, tutto deve essere perfetto.
Scendiamo allora insieme per lo Sperone Abruzzi, ma nel giro di poco tempo il cielo si chiude e ci troviamo immersi nel white out.
Come avete fatto?
Federico è riuscito, prima che si chiudesse, a prendere la direzione di campo 3, e ci è arrivato senza intoppi. Io sono rimasto arretrato, a causa di alcuni problemi a uno scarpone. Quando mi sono rialzato non avevo visibilità e la traccia di Federico si era già coperta.
Ho iniziato a scendere nella nebbia, pensando di essere nella giusta direzione. A un certo punto però, senza avere il tempo di accorgermene, mi sono ritrovato sul fondo di un crepaccio dopo una caduta di circa 10 metri.
Qui inizia la tua odissea sul K2…
Fortunatamente il crepaccio non era stretto, quindi riuscivo a muovermi, ma non avevo nessun punto di orientamento. C’erano dei vortici creati dal vento e dalla neve, non avevo visibilità e non riuscivo a capire dove fosse l’alto. Ero fermo, con la neve fresca fino al bacino e gli sci ai piedi. Per di più mi ero rotto la spalla destra. Mi sono reso conto che ero in pericolo, ma sono riuscito a mantenere la calma, ero calmissimo. Forse è stata una reazione del mio corpo, stanco e con poche energie, per non farmi sprecare altre preziose risorse, ma sono rimasto stupito dalla calma dimostrata. Credo sia stato questo a salvarmi.
Come ne sei uscito?
Ho aspettato che si quietasse il vento, poi mi sono detto “o mi muovo adesso o rimango qui”. In modo quasi meccanico, senza che me rendessi conto, ho iniziato a fare una serie di movimenti dettati dall’istinto e dall’esperienza. Io ero in un’altra dimensione in quel momento. Ho tolto gli sci e sono uscito dalla neve, poi ho iniziato a camminare verso sinistra, dove il bordo del crepaccio si abbassava e avrei fatto meno fatica a uscire. Ricordo che c’era tantissima neve, così sono tornato indietro di qualche passo e ho rimesso gli sci. Arrivato alla base del muro ho iniziato a usare lo sci come corpo morto per tirarmi su, oltre a scavare un tratto di half pipe. Con le piccozze sarebbe stato impossibile: la neve era come zucchero.
Poi?
Una volta uscito ho rimesso gli sci, ho aspettato di avere una direzione e sono sceso fino al campo. Per fortuna ho trovato Federico che mi aspettava, ma è stato difficilissimo. Non c’erano più le tende, così ci siamo riparati sotto al telo di una vecchia tenda fin quando non è arrivato Benjamin Védrines.
Non bevevamo da due giorni, io ero sfinito. Benjamin, memore di quanto successo a lui nel 2022, è salito con la tenda e con il fornelletto, così abbiamo potuto fondere del ghiaccio. Mi ha portato anche dei medicinali e mi hanno fatto delle punture di cortisone. Poco dopo è arrivato anche Sébastien Montaz-Rosset, con la bombola di ossigeno. Quella notte ho avuto alcuni lievi congelamenti alle dita, chissà come sarebbe finita se non avessi avuto l’ossigeno.
Il giorno dopo avete raggiunto campo base?
Esatto, passata la notte abbiamo ripreso la discesa nella bufera e abbiamo raggiunto campo base. Posso solo dire il mio grazie a Federico, a Banjamin, a Sébastien, a Silvia che è salita a campo 1, ai biellesi, a tutti quelli che mi aspettavano al campo base avanzato. Per radio dicevo che non era il caso di mobilitarsi in così tanti: mi ero solo rotto una spalla, non ero in fin di vita. C’era anche fin troppa gente per quello che avevo, ma è stato bello vederli tutti lì, uniti da uno spirito magico, di complicità.
Tirando le somme, com’è stata questa spedizione?
È stata una spedizione bella, che porterò nel cuore per sempre. Al di là dell’obiettivo, i rapporti umani che si sono instaurati sono stati magici. C’era un senso di complicità che raramente ho visto. Riuscivamo a capirci anche senza parlare, soprattutto tra noi alpinisti e alpiniste.
Di solito quando finisco una spedizione non vedo l’ora di tornare a casa. Questa volta, ovviamente, sono tornato volentieri, ma non ho sentito quella mancanza delle altre volte. In qualche modo era come se fossi nel posto giusto con le persone giuste.
Nel tuo futuro vedi un ritorno al K2?
Mai dire mai. Ora che lo conosco mi piacerebbe tornarci in un certo modo, più snello. Salire e scendere, come sono sempre stato abituato. Posso aggiungere una cosa?
Certo!
Vorrei ringraziare tutte le persone, gli enti e le aziende che hanno reso possibile la nostra spedizione. A partire dal Club Alpino Italiano, l’Esercito Italiano, la Banca Popolare di Sondrio, BBG Porte, Beta Utensili, Groundtruth, Antonucci e tutti gli altri sponsor e supporter.