Il libro della settimana. La vita negli occhi. Intervista a Jacopo Merizzi

L'autobiografia di uno dei più famosi sassisti esce in una nuova edizione ampliata, dove racconta la sua vita di guida alpina, di esploratore e di fotografo, fra la passione per l'archeologia e le battaglie per difendere la Val di Mello.

Per capire Jacopo Merizzi e lo spirito con cui ha scritto La vita negli occhi (pp. 206, 22 euro, Edizioni CAI 2024), basta scorrere le numerose fotografie presenti, a colori nell’inserto, in bianco e nero fra le pagine: meravigliosi scatti che raccontano mirabolanti avventure intorno al mondo, dall’Antartide al Chiapas, dall’Albania alla Yosemite Valley, dalla Giordania alle Wanuatu, in cerca di pareti da arrampicare o per confezionare reportage fotografici commissionati da importanti riviste. Non mancano i luoghi del cuore, primo fra tutti la Val di Mello, il regno delle big wall italiane e dell’arrampicata in aderenza, dove coi Sassisti – di cui è uno dei membri di spicco e fondatore – ha aperto oltre 40 vie dai nomi iconici, come Patabang nel 1979 (il regista Andrea Frigerio racconta quel mondo nell’omonimo film presente nel catalogo della Cineteca CAI), poi oggetto di diverse guide. Tante le istantanee di gruppo, numerosi i volti di carissimi compagni di avventura (e il termine qui assume davvero il suo senso più verace). Ci sono perfino alcuni dei clienti che accompagna da quando, all’età di 18 anni («e un mese», precisa lui), è diventato guida alpina.

Incredibilmente, a non comparire quasi mai è proprio la faccia dell’autore: e in un’autobiografia è molto indicativo. Merizzi è il narratore, il fotografo, il punto di vista del suo libro, non l’egocentrico protagonista di un’esistenza in cerca di complimenti. Si mostra in pochi scatti impertinenti e divertiti, anche la foto di copertina è frutto di lunghe ricerche. Domina su tutto uno sguardo scanzonato e simpatico, un po’ folle, come suggerisce Andrea Gobetti nell’introduzione che impreziosisce questa nuova edizione ampliata del libro, aggiungendosi alla prefazione di Marco Albino Ferrari. La lettura del libro è un momento piacevole, a tratti davvero spassoso. Per farsi un'idea ascoltando direttamente l'autore, si può partecipare alla presentazione prevista sabato 27 aprile alle 10.30 a Trento Film Festival, nel Salotto Letterario di Montagnalibri, in piazza Duomo.

 

Jacopo Merizzi, foto dell'autore.

Jacopo Merizzi, il libro si apre raccontando di quella volta che sei quasi morto, a 50 anni. Lo fai a modo tuo, quasi come se non fosse una cosa seria, eppure l’incidente è stato gravissimo. Quanto ti ha segnato quell’episodio?

Nel libro racconto episodi della mia vita che sembrano quasi impossibili… Le immagini le metto per dimostrare che invece sono successi veramente, per contrapporre un po’ di realismo al mio sguardo leggero e surreale. Se devo parlare seriamente di me, ho in effetti vissuto un momento drammatico e decidere di tornare in vita è stata una scelta difficilissima. Avevo riportato 57 fratture, tre emorragie, ero davvero come morto, e visto che ormai le avevo fatte tutte, mi sono chiesto se valesse la pena tornare dall’aldilà. Quando ho visto che riuscivo ancora a muovermi in montagna allora mi sono detto: sì, ne vale ancora la pena. Il dramma è che non sono cambiato per niente però! Sono distratto come prima, sempre felice, sempre divertito dalla vita, solo un po’ meno scaltro, quindi ogni tanto devo stare più attento.

Sarai pur cambiato un po’!

Ti racconto un aneddoto che non ho messo nel libro: dopo un trauma così grosso, dopo mesi di operazioni mi muovevo ancora sulla sedia a rotelle, una cosa dolorosissima per me. Mi avevano consigliato di andare dal neuropsichiatra, allora mi sono preparato al meglio, per passare “l'esame”. Mi siedo davanti alla dottoressa e lei mi chiede che anno è. Le rispondo il millenovecento… (l’incidente è avvenuto nel 2010, NdR). Mi chiede la stagione. Io guardo fuori, cercando di capire se è primavera o estate…Mi “boccia”. Torno quindi con mia moglie Michela, mi rifà le stesse domande e io rifaccio la stessa scena. “Guardi che era così anche prima”, dice Michela…E con questo mi ha salvato. Ecco, non sono cambiato.

Delle tue numerose esplorazioni quale ti è rimasta nel cuore? Fermo restando che in Antartide ti vediamo vomitante sul ponte della Pelagic, o tornare dal Chiapas con una grave polmonite…

Uno dei luoghi più belli che ho visitato è stato il sud dell’Algeria, dove il deserto ha una varietà straordinaria. In Antartide dovevo andare per un servizio fotografico per un importante marchio, ma al momento di partire non avevo più attrezzatura, perché la mia prima moglie me l’aveva lanciata contro mentre fuggivo da casa in mutande… I soldi per arrivare a Ushuaia me li ha prestati il regista Marco Preti, uno dei miei compagni della Pelagic, e così sono riuscito a comprarmi una macchina fotografica di seconda mano e un altro obiettivo, che insieme a quello che mi aveva tirato contro mia moglie mi bastava. Siamo stati tre mesi su questa piccola imbarcazione da 14 metri, è stato difficile per me condividere spazi così stretti. 

Ma davvero hai incontrato il fantasma dei due ricercatori italiani degli anni ’30, morti in Antartide?

Te lo racconto. Mi ero accampato da solo, perché non sopportavo più la compagnia degli altri e di percorrere queste immense distese di ghiaccio e basta. Di notte sento un urlo terrificante, “fammi entrare” diceva, in italiano! Ma fuori dalla tenda non c’era nessuno! Ho provato una paura enorme e non sono più riuscito a dormire. Scoprire che anche Marco Preti, a chilometri di distanza, aveva vissuto la stessa esperienza mi ha colpito molto. L’Antartide è molto fotogenica, ci sono incredibili contrasti di verde, di azzurro, di tramonti rossi, perché il sole rimane sempre all’orizzonte, le temperature non sono così fredde, sempre intorno allo zero. Ma la cosa più bella dell’Antartide non è quando vai, navigando controvento sul mare tempestoso dello Stretto di Drake, ma quando torni: vedere Capo Horn e tornare a sentire il profumo della vegetazione dopo mesi di solo ghiaccio è fantastico! Ti rendi conto di quanto sia bello il nostro mondo.

Di battaglie ambientaliste ne hai fatte, ma questa è una consapevolezza che sembri aver maturato nel tempo.

Quando ho iniziato io il mondo era grande, andare in America con l’aereo era un’eccezione. Ho aperto decine di vie di roccia e di ghiaccio perché c’era tanto da fare. Per un giovane oggi è molto diverso: ormai è stato fatto quasi tutto, il mondo è diventato piccolo. E poi è anche vero che quando avevo 20 anni non mi facevo tanti problemi… Poi invece ti rendi conto che devi avere molta attenzione verso l'ambiente. Non bisogna lasciare tracce, dobbiamo entrare in punta di piedi e questa è la cosa più bella e più moderna che possiamo fare. In Val di Mello ci abbiamo messo un po’ a capire il messaggio, poi ci è entrato nel cuore. In Antartide confesso che mi sono commosso quando ho trovato i rifiuti lasciati dai ricercatori 70 anni prima, ma qua, dove l’ambiente è totalmente antropizzato, è l’opposto: abbiamo bisogno di trovare luoghi selvaggi, vie non tracciate, pareti schiodate. 

Fra poco si terrà il Melloblocco, parteciperai?

Ci vado sempre, perché non è una gara, ma una festa dove ci si trova per arrampicare, ciascuno al suo livello. Ma soprattutto è un raduno di giovani, e io mi commuovo a vedere i giovani, con la loro allegria, la loro libertà.

In Val di Mello hai condotto diverse battaglie ambientaliste, e ne sei considerato uno dei massimi difensori.

La Val di Mello è un caso quasi unico. A salvarla è stato il Vajont, perché quando era in corso il progetto di costruzione di una diga a Predarossa negli anni ’60 è accaduta la tragedia a Erto e Casso, e allora l’Enel si è tirata indietro, valutando che forse la zona non fosse geologicamente ideale, perché lì c’è il punto di contatto fra i graniti della Val Masino e i serpentini della Valmalenco. Non ripercorro tutte le vicende successive, la cosa importante è che oggi a salvare la Val di Mello sia stato un movimento nato dal basso. 

Proprio la bellezza della Val di Mello ne ha causato il sovraffollamento. Come si risolve il nodo?

Lo so, anche perché è vicina a Milano… A Yosemite possono limitare gli accessi, perché è proprietà demaniale, invece la strada che sale in Val di Mello è suddivisa in tanti proprietari privati. Qui hanno pensato di mettere a pagamento il parcheggio, ma non basta. Non so come risolvere il problema. È anche vero però che ad essere molto frequentato è il fondovalle, di facile accesso, basta salire un quarto d’ora per trovare luoghi selvaggi e desolati. Meravigliose pareti alte mille metri, lavorate dal ghiaccio, levigate e tondeggianti, anomalie geologiche, circondate da cascate… È una bellezza eccezionale.

Alle spalle hai una tentata laurea in scienze naturali, ma nel libro scopriamo la passione per l’archeologia. A Marettimo, nelle Egadi, hai fatto pure scoperte importanti.

La laurea non l’ho presa perché ero sempre in giro per il mondo… A Marettimo ci torno sempre, è un’isola che mi è entrata nel cuore, e io le ho girate tutte le isole, in Grecia, in Libia, in Turchia… L’archeologia mi appassiona perché sono curioso. Mi attrae l’idea di entrare in una grotta quasi 2000 anni dopo che l’ultimo uomo ci ha inciso iscrizioni rupestri e trovare le mummie o gli oggetti lasciati lì. Ti senti un intruso e capisci ancora di più quanto sia importante entrare in punta di piedi. La fase del pennello invece mi annoia e lascio il campo agli archeologi. Le scoperte fatte a Marettimo sono servite a retrodatare di duemila anni l’uso delle imbarcazioni nel Mediterraneo, sono state anche pubblicate su riviste prestigiose, «Earth-Science Reviews» e «National Geographic».

Uno dei capitoli è dedicato ai tuoi clienti. Sono cambiati nel tempo? Come li scegli?

Il cliente lo forma la guida, ma non è altro che un compagno in cerca di qualcuno con più esperienza con cui vivere un’avventura. Poi dipende sempre dai clienti che porti, se sono bambini, o se sono già forti, è una professione variegata. Io ne ho sempre scelti pochi, che spesso sono diventati amici. I clienti sono come le amanti, non si scelgono e non si rifiutano, al massimo si evitano. Non sono cambiati in 50 anni: significa che sono tornati tutti vivi.

Sei ancora un sassista?

Forse sì, spelato, invecchiato, ma sì. È stato un bellissimo momento di gioventù, di energia. Ho sempre amato rompere gli schemi, per me l’arrampicata è libertà assoluta. I sassisti erano giovani scapestrati che trovavano nella natura l’unico posto dove coltivare la loro passione. Anche se il giovane che sono stato mi eviterebbe oggi, come io evitavo tutti i vecchi, e farebbe l’opposto di quello che dico, perché sono sempre stato un bastian contrario.

I tuoi figli fanno così?

Mio figlio è un bravissimo ingegnere che pensa ancora di potermi cambiare, mi dice che forse è il momento di combinare qualcosa… Ma a 65 anni fare niente è un diritto acquisito! Mia figlia, più grande, mi guarda come si guardano gli anziani, con tenerezza.