Il Mont Velan di Laurent-Joseph Murith

Il versante svizzero del Mont Velan © Wikimedia Commons

Un anno dopo l’esplorazione dei sette ragazzi di Gressoney sul Colle del Lys, considerata la prima ascensione documentata d’alta quota, il 31 agosto 1779 arriva l’eccezionale salita del Mont Vélan da parte dell’abbé Laurent-Joseph Murith. Si tratta di una delle più belle cime del Vallese, non lontano dal Grand Combin.

Nato nel villaggio di Sembrancher nel 1742, cresciuto ai piedi dei ghiacciai, Murith aveva fatto professione di fede nel 1761 ed era stato ordinato sacerdote nel 1766. Uomo colto e intraprendente, studioso di scienze naturali, profondo conoscitore del Vallese, era destinato a diventare curato e priore del Gran San Bernardo, autore di un manuale botanico, accompagnatore dello scienziato ginevrino Horace-Bénédict de Saussure tra le rocce e i ghiacciai svizzeri e guida di Napoleone e del suo esercito nella famosa traversata delle Alpi del 1800. Ma prima di tutto voleva salire la più bella cima di casa: il bianchissimo Vélan, 3731 metri.

Si trema di ammirazione, perché nel 1779 nessuno aveva mai tentato una montagna così difficile e nessuno era mai salito così in alto tranne i sette ragazzi l’anno precedente. Nessuno, soprattutto, si era avventurato su un ghiacciaio così erto, con una pendenza decisamente ragguardevole, e probabilmente nessuno capiva perché proprio un prete volesse provarci, dal momento che scalare le montagne non portava alcun vantaggio materiale, e nemmeno spirituale. 

L’abbé sceglie due cacciatori di provata (o millantata) abilità e buona conoscenza del terreno. Ha bisogno di due compagni solidi, due montanari, anche se l’impresa prende le mosse da una sollecitazione scientifica e forse da una spinta religiosa. Partono alla fine di agosto con tre zaini pesanti, dormono all’addiaccio al limite della vegetazione e il giorno dopo si avvicinano al Glacier de Valsorey, lo spauracchio della comitiva. Il ghiacciaio si mostra ripido e tormentato, spezzato dai crepacci, ostruito dai seracchi. Di notte fa molta paura. L’abbé e i cacciatori sono attrezzati sommariamente: grappette sotto le scarpe – le rudimentali punte di metallo che aiutano i contadini di montagna a non scivolare sul terreno ghiacciato – e alpenstock nel pugno della mano, i lunghi bastoni ferrati utili a cacciare le marmotte e mantenere l’equilibrio sui pendii, non a scavare gradini nel ghiaccio ripido. Murith, per fortuna, ha portato anche una mazza appuntita da geologo. Hanno cibo per qualche giorno e un barometro per le misurazioni. Quando raggiungono il bianco muro che sbarra il cammino, i cacciatori si lamentano per la stanchezza e probabilmente tornerebbero indietro se Murith non impugnasse il martello e cominciasse a incidere una fila di scalini verso la vetta. Intanto esorta i compagni, li rassicura che i mostri non esistono, li incita a non mollare… 

Quando i tre pionieri arrivano in cima sono i padroni del mondo, come lo stesso Murith scrive a Horace-Bénédict de Saussure: “Se foste stato con me avreste goduto del più splendido spettacolo di montagne e ghiacciai che si possa immaginare; avreste potuto contemplare una cerchia di picchi di altezza differente, da Torino al Piccolo San Bernardo, dal Gran San Bernardo al Lago di Ginevra, da Vevey al San Gottardo, e ancora dal Gottardo a Torino… Ma non posso promettervi che vi aiuterò a godere della stessa vista, perché malgrado la mia audacia ho passato troppi guai per guadagnarmi la vetta di questo gigante…”.