Il libro della settimana. La vetta della vita. Intervista a Matteo Della Bordella

La narrazione avventurosa ed emozionante di una salita storica a una montagna iconica, ma anche un modo per chiudere il capitolo, meraviglioso e duro, che l'ha preceduta.

Un “grido di pietra” lanciato verso l’alto, in un’immensità di roccia e ghiaccio che si perde oltre l’orizzonte. In cima al suo iconico fungo delle figure minuscole, abbagliate dalla potenza di quella visione. Al Cerro Torre, “sogno sospeso fra roccia e cielo”, Matteo Della Bordella, che a luglio compirà 40 anni, dedica il suo secondo libro, La vetta della vita (pp. 234, 18 euro, Rizzoli 2024), costola del precedente La via meno battuta (Rizzoli 2019), dove narrava i primi approcci con la montagna e la scelta di diventare alpinista professionista, anziché proseguire con la carriera accademica in ingegneria.

Sulla Est del Cerro Torre nel gennaio 2022 l’alpinista di Varese ha aperto la nuova via Brothers in arms, con Matteo «Giga» De Zaiacomo (neo-eletto presidente dei Ragni) e David Bacci: un’impresa storica che è valsa ai tre anche il Premio Paolo Consiglio 2023. Come ciò sia avvenuto è il culmine di un racconto che deve tornare indietro nel tempo e allargarsi ad abbracciare le numerose spedizioni e i molti compagni che hanno preparato la strada per quel risultato: dagli esordi patagonici con il “compagno di cordata per eccellenza”, Matteo Bernasconi (il Berna), ai nuovi sodali come Matteo Pasquetto, entrambi scomparsi nell’estate 2020, poi Luca Schiera, il già citato Giga, David Bacci, suoi compagni in Argentina, ma anche in Nepal e in Groenlandia.

La pubblicazione, piacevolmente e corredata da un ricco apparato fotografico, cade a 50 anni dalla prima salita sulla montagna, avvenuta dalla parete Ovest grazie ai Ragni Mario Conti, Casimiro Ferrari, Pino Negri e Daniele Chiappa. Anche Matteo, che dei Ragni è stato presidente dal 2018 al 2021, sta contribuendo alle numerose celebrazioni organizzate a Lecco, fra cui bisogna annoverare anche il film su Casimiro uscito nel 2023, Il Ragno della Patagonia, di Fulvio Mariani.

Non c’è però solo il Torre nel libro, che non si riduce certamente a un freddo resoconto di gradi e difficoltà, ma vibra di un’emozione finalmente libera di esprimersi. La narrazione è a tutto tondo: c’è l’ego ambizioso dell’alpinista, mitigato però dall’umiltà della persona, c’è l’amico sincero anche se a volte riservato, c’è il figlio che per sempre piangerà un padre morto all’improvviso, e c’è il ragazzo che smette i panni di eterno Peter Pan e diventa a sua volta padre, senza smettere di essere anche alpinista, con la voglia di provare a dare il meglio in entrambi i ruoli. E così il tondo si chiude, mettendo il punto, come racconta Della Bordella, a un capitolo meraviglioso e duro al tempo stesso della sua carriera alpinistica.

 

In cima al Cerro Torre. Foto dell'autore

 

Matteo Della Bordella, sei appena tornato dalla Patagonia, ci racconti qualcosa?

Non sono troppo soddisfatto, era troppo tardi con la stagione, fine marzo era un po’ una scommessa, ma speravo che tenesse di più, invece l’autunno è arrivato praticamente a inizio mese. Ha messo giù così tanta neve, che per la prima volta in 13 anni che vado ho messo le ciaspole per recuperare il materiale lasciato al campo avanzato.

La Patagonia è ormai la tua casa spirituale, com’è cambiata da quando ci vai?

Da quando ci vado io, El Chalten aveva già fatto il grande “salto”, però adesso sicuramente ci sono più alpinisti, più informazioni disponibili e più servizi, sta crescendo e quindi diventa più turistico. Però per fortuna, appena metti il piede fuori sul sentiero è rimasto tutto uguale. E speriamo che resti così. 

Perché ci torni sempre?

Alla Patagonia mi lega un fascino istintivo difficile da spiegare, è un sentimento che mi viene da dentro, irrazionale. È il tipo di alpinismo che piace a me, ci trovo montagne estremamente belle, verticali e impegnative da scalare, con l’aggiunta del lato esplorativo, anche se sulle cime del Fitz Roy e del Torre non si può più parlare di esplorazione pura. Le distanze sono molto più grandi rispetto alle Alpi, guardando al Torre anche solo da El Chalten ti senti in un’altra dimensione e questo è diverso da quello che puoi trovare su qualunque montagna delle Alpi: in certi posti sul Bianco ti senti comunque al contatto con la civiltà. E poi il fascino che queste montagne non si lasciano conquistare facilmente. Capita di andare là e non combinare niente, come quest’anno. Se una cosa ti riesce facilmente non ti dà le stesse sensazioni ed emozioni di un risultato che raggiungi dopo un processo lungo fatto di sacrifici e impegno.

Il Cerro Torre è la tua “sirena”. Cosa ti ha detto Mario Conti, l’unico Ragno con cui hai potuto parlare della spedizione del 1974?

Mario era un riferimento, avevo per lui una stima e un rispetto enorme. Quando sono entrato nei Ragni tanti della generazione precedente non c’erano più, per diversi motivi, e alla fine c’era lui, che è uno diretto e di tante robe gli interessava poco, ma quando parlavi della Patagonia, del Torre, gli si accendeva la lampadina. Quella era la sua montagna, dove i Ragni hanno scritto la storia. Mi ha trasmesso l’impegno e la determinazione nel voler raggiungere certi obiettivi. Ci diceva sempre di non mollare, che in Patagonia tutto può cambiare e tutto può succedere.

Matteo Della Bordella, a sinistra, con Mario Conti al centro e Nicola Lanzetta, dopo la ripetizione della via dei Ragni al Torre nel 2019. Foto dell'autore.

Nel libro citi molti compagni con cui hai sviluppato un forte legame di “fratellanza”. Cosa ti porti dentro di Berna, di Pasquetto, di Korra Pesce?

Per me era importantissimo scrivere questo libro, per me e per loro, perché dopo un po’ la memoria cambia. Ho raccontato spesso quello che è successo e ho finito per abituarmi a farlo, risultando a volte distaccato, quasi freddo. Invece nella scrittura sono riuscito a fissare nero su bianco tutti gli episodi che mi legano a queste persone, dando loro il giusto valore e riuscendo a buttare fuori l’emozione per tutto quello che ho vissuto e che mi porto dentro, e che con le parole non riesco a esprimere, perché solo scrivendo riesco a concentrarmi, senza nessuno che mi ascolta. Mi sento di aver chiuso un cerchio, lasciando qualcosa di tangibile come un libro. Credo che sia questo il suo valore.

Ad altri alpinisti presenti, come François Cazzanelli o Giga, hai fatto leggere il libro prima di pubblicarlo?

No! O meglio, quando ormai era già in stampa. Speriamo che vada tutto bene!

Scrivi che da tutti i tuoi compagni, anche quelli più giovani e meno esperti di te, hai imparato molto. 

Mi piace scalare sia con persone che conosco bene, creando un legame forte, sia con chi conosco meno, perché è in quelle situazioni che imparo cose nuove. Negli ultimi anni vedo proprio la nuova generazione: Giacomo Mauri, con cui sono appena stato in Patagonia, ha 16 anni meno di me, mi sono trovato benissimo perché è un grande, ma per la prima volta ho anche sentito uno stacco, come con i ragazzi dell’Eagle Team. Queste sono le occasioni per me per rinnovarmi, perché se continuassi a scalare con i miei soci negli stessi posti diventerebbe quasi una routine. Invece così posso trovare nuovi stimoli e questa è la chiave per evolvere e fare qualcosa di diverso, senza fermarsi sempre lì.

Cosa vedi di diverso nelle nuove generazioni di alpinisti?

È una cosa che nell’arrampicata si vede benissimo, nell’alpinismo meno. Quando vedi dieci sedicenni che fanno il 9a, mentre prima lo facevano in tre al mondo, capisci che lo sport si è evoluto. Nell’alpinismo si vede meno perché non c’è un confronto numerico, però, se ci penso, alcuni ragazzi dell’Eagle Team hanno già delle competenze e delle esperienze elevate per la loro età. Le prime volte che andavo in Patagonia con Berna non sapevamo neanche da che parte fossimo girati…ci siamo fatti le ossa scontrandoci con queste pareti, invece questi ragazzi hanno la fortuna di essere di più e potersi confrontare tra di loro, partendo da una base più ricca. A me è mancato qualcuno che mi spiegasse come scalare certe montagne, anche se sono contento del percorso che ho fatto e di averlo scoperto da solo, ma se uno viene un po’ indirizzato può arrivare ancora più in alto. Le nuove generazioni hanno queste armi in più, anche se nell’alpinismo sono molti i fattori che contano, non è solo una questione di allenamento.

Il più in alto nell’alpinismo oggi cos’è per te?

L’alpinismo si è sempre evoluto in due direzioni: una più tradizionale, affrontando pareti sempre più difficili, in maniera più pulita, che 20 anni prima sarebbe stato impensabile. Poi c’è un’evoluzione meno legata alla performance o alle capacità tecniche, e invece più al lato esplorativo e romantico, quindi alla persona stessa: avere idee nuove, scalare montagne diverse mai scalate prima. Nel panorama internazionale, a livello italiano, se confrontati a certi grandi nomi dell’alpinismo, anche in Patagonia (penso a Colin Haley, Alex Honnold, Tommy Caldwell), siamo sempre stati un po’ indietro, adesso questa nuova generazione può arrivare ancora a quei livelli lì.

Cosa insegni ai ragazzi dell’Eagle Team?

Insegno molto dal punto di vista pratico legato alle spedizioni e alla scalata sulle montagne in Patagonia, perché è un terreno complesso e diverso da quello alpino: come saper leggere le previsioni del tempo, come capire dove è meglio andare a seconda di certe condizioni, che poi è la cosa più difficile. Ma il mio consiglio principale, in controtendenza, basato su quello che ho vissuto, è di non andare mai oltre il proprio limite, perché non è vero che in montagna non ci sono limiti, anzi. Puoi cercare di superare te stesso, ma prima devi capire dove puoi arrivare. La prima regola è tornare a casa e rendere questa attività un po’ più sicura che in passato, per quanto estrema. La cosa più importante per me è non far vivere a questi ragazzi quello che ho vissuto io con la perdita di alcuni compagni. Non so bene come trasmetterglielo, però ci tengo molto.

Tu lo hai capito il tuo limite?

Mica tanto…In questi anni ho sicuramente più consapevolezza, però chiaramente il gioco dell’alpinista è di camminare su questo limite: magari pensi di averlo compreso, invece sei già oltre la linea. L’esperienza aiuta, e anche il confronto con te stesso e con i compagni, senza mai credersi il più bravo di tutti, perché puoi sempre sbagliare. Per questo è importante ascoltare le diverse opinioni di tutti.

Quando hai raggiunto l'equilibrio perfetto tra corpo e anima?

Sul Cerro Torre, senza dubbio, soprattutto quando abbiamo aperto Brothers in arms, la via più emblematica. Mi sentivo veramente preparato per scalare questa montagna, dentro di me ero pronto sia fisicamente che mentalmente a tutto quello che poteva arrivare. L’incidente di Korra è stata una bruttissima sorpresa, ma mentalmente sapevo che questa cosa fa parte del gioco ed ero pronto.

La paternità e l’alpinismo: passato lo scoglio di fare un figlio, cosa ne pensi ora che ne hai due? Si può fare il padre e l’alpinista? 

Ci stiamo provando…Certo è più difficile, faccio un esempio banale: sono stato via un mese in Patagonia, senza riuscire a fare quello che volevamo e già quasi mi pento di essere andato, perché alla fine avrei fatto meglio a restare qua. Se non ci fossero stati i bambini, sarei stato via tre mesi e anche senza combinare niente sarei stato contento di essere là. Quindi di sicuro la famiglia non rende le spedizioni più semplici, però ti riempie la vita in maniera diversa. Se mi avessero chiesto tanti anni fa cos’è la cosa di cui andare più orgoglioso avrei indicato alcune mie scalate, adesso direi onestamente la mia famiglia, perché la vita è fatta anche di tantissime altre cose. Finché non provi non lo sai. Io comunque vorrei continuare a scalare, ma con la vita piena di questo regalo meraviglioso.

Che tipo di padre è l’alpinista?

Un padre che se vuole combinare qualcosa ogni tanto deve andare. Alla fine io comunque sono un tipo ambizioso, non mi accontento, e anche se non sempre raggiungo i miei obiettivi ci tengo almeno a provarci. E questo significa sacrificare un po’ di tempo alla famiglia (o portarmela dietro, se si può) e stare via, non è facile, non ho la ricetta, però ci proviamo. Alex e Thomas Huber hanno tre figli a testa!

Dopo la “vetta della vita” c’è ancora spazio per altri obiettivi?

Più d’uno! Come dicevo, con questo libro ho chiuso un capitolo importante, per me è stata una sorta di liberazione. Mi piacerebbe scalare ancora il Cerro Torre, perché ho un sacco di idee nuove sia su questa montagna, sia in Patagonia, ma anche in altre parti del mondo. Penso di essere pronto per trovare un nuovo, grande progetto, ci vuole tempo. Sembra che io faccia tante cose, ma ci sono progetti più grandi degli altri, come lo sono stati il Cerro, la Torre Egger, o alcune spedizioni in Groenlandia, e questi hanno bisogno di tempo. Non so ancora quale sia, perché i grandi progetti si sviluppano anche in maniera spontanea. In Patagonia con Giacomo Mauri avremmo potuto fare qualcosa di nuovo, ma siamo stati sfortunati col tempo e non so se tornerò quest’estate. Ma sono mentalmente pronto per aprire una nuova pagina, poi quello che deve arrivare arriverà.