La Direttissima sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo

Le Tre Cime con al centro la verticale parete nord di Cima Grande © Tiia Monto-Wikimedia Commons

Dal 6 al 10 luglio 1958 Dietrich Hasse e Lothar Brandler firmano un capolavoro: la Direttissima sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo. Hasse afferma: «Per noi i chiodi sono a pieno diritto ottimi sostituti di appigli e appoggi». Potrebbe sembrare un’affermazione ingenua secondo i parametri di oggi, ma la Hasse-Brandler è una grande via e i suoi apritori due grandi scalatori, anche in arrampicata libera.

Il fenomeno delle direttissime dolomitiche va collocato storicamente. Finita la guerra, passata la sbornia patriottica delle spedizioni himalayane e chiusa la corsa ai quattordici ottomila (il primo scalato è l’Annapurna nel 1950; l’ultimo lo Shisha Pangma nel 1964, ma era riservato ai cinesi), gli esploratori della verticale temono di avere esaurito le pareti alpine disponibili. Il miracolo economico, paradossalmente, coincide con la crisi dell’esplorazione alpinistica. Dunque si punta sulla tecnologia e ci si rivolge agli strapiombi assenti sulle mappe zenitali, tracciando verticali astratte che più che alla logica rispondono alla geometria. E allo spettacolo. Forando la roccia si può tirare dritto quasi ovunque, anche dove mancano le fessure e bisogna ricorrere al punteruolo. In Italia i due maggiori interpreti dell’artificiale saranno Cesare Maestri e Bepi De Francesch.

Le danze si aprono proprio nell’estate del 1958, quando Hasse e Brandler, affiancati da Jörg Lehne e Sigi Löw, inventano un itinerario assai diretto sullo strapiombante muro settentrionale della Cima Grande, usando centottanta chiodi normali e dodici chiodi a pressione. Pochi per la verità, a dimostrazione della loro maestria, ma tantissimi rispetto a una classica via di arrampicata. I tedeschi salgono a sinistra della celeberrima via di Emilio Comici e dei fratelli Dimai, che negli anni Trenta era la frontiera della scalata estrema e strapiombante. Vestendo i panni dello storico, Reinhold Messner commenta che l’itinerario di Hasse e Brandler «era la via che ci voleva per accrescere la bellezza e il patrimonio alpinistico di quell’imponente lavagna di roccia gialla e grigia, sulla quale tanti uomini coraggiosi avevano combattuto battaglie che la storia non dimentica. In proporzione ai tanti strapiombi che andavano superati, il numero dei chiodi usati dai primi salitori non è neanche esagerato: una media di un chiodo ogni tre metri». Chapeau, insomma, anche perché sarà proprio Messner, nel 1968, a criticare aspramente la moda delle direttissime dolomitiche nel famoso articolo “L’assassinio dell’impossibile”. Ma la via del 1958 segue ancora un pensiero d’avanguardia e rappresenta un salto culturale, oltre che tecnico. È un nuovo passo verso la frontiera estrema dell’arrampicata.

La via di Hasse e Brandler appassiona e fa tendenza, così altri scalatori cercano soddisfazione e gloria sui rovesci di calcare dove le frane hanno mangiato la pancia delle pareti. Si sottopongono a estenuanti giornate di “lavoro” per scavalcare i soffitti e domare gli strapiombi. Qualcuno li chiama operai o manovali, ma loro non desistono: meglio essere degli operai all’onore del mondo che oscuri alpinisti fuori dal tempo. Tuttavia in Italia siamo in ritardo, perché in Yosemite, sempre nel ’58, è stato salito il Nose, la prima via di El Capitan e una delle più famose al mondo. Warren Harding, Wayne Merry e George Whitmore hanno passato 47 giorni in parete, superando in libera e in artificiale difficoltà non paragonabili a quelle alpine del periodo. Pochi anni dopo, nei primi anni Sessanta, gli “americani del Monte Bianco” Royal Robbins, John Harlin e Gary Hemming dimostreranno lo scarto che separa gli scalatori americani dagli europei, che recupereranno negli anni Settanta imparando le tecniche e soprattutto liberandosi dai tabù. Il limite è sempre innanzitutto mentale e culturale; quello tecnico viene dopo.