Renato Casarotto, diciotto anni di scalate irripetibili

Precipitato 35 anni fa in un crepaccio ai piedi del versante meridionale del K2, oltre a essere entrato nel Gotha della grande storia dell’alpinismo, continua a vivere nella memoria degli scalatori di oggi
Renato Casarotto non è più con noi da oltre trentacinque anni. Se ne andò la notte del 16 luglio 1986, dopo essere caduto in un profondo crepaccio del ghiacciaio De Filippi, quasi ai piedi del versante meridionale del K2. Il mondo degli scalatori – e non solo quello italiano – non ne ha mai dimenticato la figura, le capacità e i traguardi a cui era giunto. E non si tratta di un fatto scontato, se torniamo con la mente al mainstream delle narrazioni alpinistiche che aveva caratterizzato i quindici anni successivi alla sua scomparsa.
Renato Casarotto
Durante la prima invernale della parete est delle Grandes Jorasses (marzo 1985) © Archivio Goretta Traverso

Monumenti dell’immaginazione e della capacità alpinistica

Oggi, passato il tempo dell’urgenza di parlare di Casarotto a ridosso della sua scomparsa, molti giovani manifestano un interesse nuovo nei confronti delle sue vie, che appaiono come autentici capolavori. Grandiosi monumenti all’immaginazione e alla capacità alpinistica, capaci di regalare suggestioni potenti e di arricchire con uno stupefacente valore aggiunto pareti senza fine, diedri giganteschi che sembrano tagliati da un fendente di spada, spigoli di roccia e di ghiaccio catapultati verso il cielo. Quasi tutte le grandi vie nuove di Renato Casarotto portano incise una simbologia indelebile. Un marchio che le pone fuori dal tempo, non le lascia invecchiare e le sottrae alla superficiale storiografia dell’immediato. Proprio come accade a quelle opere d’arte che, realizzate nell’antichità, continuano ancora parlarci nei giorni della nostra contemporaneità.
Casarotto Monte Rosa
Renato impegnato su una seraccata nel massiccio del Monte Rosa © Archivio Goretta Traverso

Due decenni di attività strepitosa

Ricordando Casarotto, abbiamo in mente la sua titanica attività dolomitica – estiva, invernale, spesso in solitaria – negli anni ’70, i suoi grandiosi itinerari sulle Pale di San Lucano, la sua via nuova sulla Busazza. E poi le sue scalate alpine più famose del decennio successivo: il Trittico del Frêney al Monte Bianco, l’invernale al Piccolo Mangart di Coritenza nelle Alpi Giulie, la prima invernale della parete est delle Grandes Jorasses. Oltre, naturalmente, a tutte le sue stupefacenti ascensioni sulle montagne lontane, a partire dalla scalata solitaria della parete nord del Nevado Huascarán Norte (6768 m), nella Cordillera Blanca in Perù, per continuare con quella del Pilastro Nord Est del Fitz Roy, in Patagonia, con la sua prima salita (sempre da solo) del Broad Peak Nord (7600 m), con l’incredibile Ridge of no Return al Denali (che allora si chiama ancora Mount McKnley), fino al suo ultimo, sfortunato tentativo solitario sul gigantesco Sperone Sud Sud Ovest del K2. A rileggere oggi l’elenco delle imprese alpinistiche di Casarotto, si resta sbalorditi di fronte a una collana di scalate tenuta insieme da un’intuizione, un’energia e una capacità visionaria che avevano scavalcato di molto il limite della bravura. A capolavori di una caratura talmente elevata, che la critica alpinistica del tempo, impreparata a realizzazioni quella portata e probabilmente fuorviata dalle mode del momento, riuscì – fatte le dovute eccezioni – a leggere e interpretare solo in maniera superficiale.

Lo spostamento dei limiti

Oggi, come si diceva, tra le leve più giovani dell’alpinismo comincia a levarsi qualche voce che chiedere di rivisitare un passato archiviato in maniera troppo frettolosa. D’altra parte, è invitabile che le nuove generazioni dell’alpinismo, non gravate dai pregiudizi della contingenza, siano alla ricerca di parametri di giudizio più sereni nei confronti del passato.. A chi ha intenzione di rileggere la stagione alpinistica di Casarotto, va comunque ricordato che, con le sue realizzazioni, Renato non intendeva affatto cancellare con spirito faustiano e con arroganza tutti i limiti posti dalla montagna. Lo scalatore veneto aveva semplicemente capito che alcuni vecchi limiti potevano essere spostati in avanti, ed era riuscito nel suo intento. Per contro, era perfettamente conscio della sua finitezza, e sapeva di essere solo una formichina su una grande parete, anche se poi, quando lo vedevi progredirei sulla roccia e sul ghiaccio, capivi di trovarti in presenza di un’intelligenza del fare che andava ben oltre l’usuale.
Renato Casarotto Pelmo
All'attacco della parete nord del Pelmo, dicembre 1974 © Archivio Goretta Traverso

Una lente per osservare il mondo

È su un contesto come quello appena delineato, che occorre ragionare per decodificare le prestazioni sportive di Casarotto. Tanto più che, nel caso di Renato, il discorso non può limitarsi all’aspetto tecnico-psicologico. Questo non significa che lui non provasse piacere nel concatenamento dei movimenti, nell’aspetto estetico di un itinerario o nel contatto con la wilderness delle grandi altitudini. Ma per lo scalatore vicentino il gioco non si esauriva nell’apertura di una via, nell’arrivo su una vetta, e nemmeno con il ritorno a valle. Spesso, soprattutto negli ultimi tempi, per Casarotto l’alpinismo era diventato l’occasione per affacciarsi a una finestra spalancata su una dimensione diversa del mondo. Era come se, nell’impegno della salita, trovasse la chiave per avvicinare un aspetto diverso del reale, invisibile con i soli sensi. Un universo con cui ci si può sintonizzare con fatica, e solo a tratti, se si entra in risonanza con vibrazioni sconosciute, se si riesce a captare la frequenza giusta grazie al concorso della fatica, della solitudine, dell’autoresponsabilità, di condizioni psichiche particolari e di capacità visionaria. Questo era il regalo che Renato si permetteva sulle grandi vie solitarie. Uscire dal mondo, pur con i piedi, le mani e la testa ben presenti all’ambiente circostante, e lasciar correre lo sguardo sull’altrove.