Vento e montagne

È vero che su Alpi e Appennini le giornate di grande vento sono aumentate? Esiste una relazione tra la ventosità e la crisi climatica? Lo abbiano chiesto a Daniele Cat Berro, ricercatore della Società meteorologica italiana
Negli ultimi anni sempre più spesso vengono pubblicati articoli che riportano la notizia di venti con velocità molto elevate registrate in diverse aree montane del nostro Paese. Oltre alla famosa e distruttiva tempesta Vaia, sono state segnalate, ad esempio, le raffiche fino a 140 chilometri orari sul Pizzo Arera, nel Parco delle Orobie, a febbraio 2020. Oppure, lo stesso mese, i 189 km orari registrati a Punta Ces (2230 metri), in Trentino, e i 162 km nella stazione di Ra Valles, a 2475 metri, sopra Cortina d'Ampezzo. Di pochi mesi fa (febbraio 2022) è la notizia dei picchi di 219 km/h raggiunti dal vento ai 3272 metri della Gran Vaudala (TO), nel Parco Nazionale del Gran Paradiso. Anche in Appennino sono uscite notizie su raffiche fortissime in quota, dai 270 km/h di Croce Arcana (Monte Cimone, 1749 metri), nel novembre 2020, ai 257,4 km/h raggiunti al Rifugio Duca degli Abruzzi sul Gran Sasso (2388 m), nel gennaio 2019.

Venti e rilevi montuosi

La ventosità in montagna sta dunque aumentando? Lo abbiamo chiesto a Daniele Cat Berro, ricercatore della Società Meteorologica Italiana, che ha spiegato innanzitutto cosa succede quando il vento incontra una catena montuosa.
«Quando il vento impatta un rilievo montuoso naturalmente cambia percorso. Le deviazioni possono avvenire in senso sia verticale sia orizzontale. Per esempio, quando un vento proveniente da nord incontra le Alpi, le può in parte scavalcare e in parte aggirare. Nel primo caso, sul lato sopravento (il versante nord delle Alpi, n.d.r.) la massa d’aria, impattando contro la catena montuosa, sale di quota e si raffredda. Il raffreddamento porta alla condensazione del vapore acqueo dell'aria, producendo nubi e precipitazioni, che vengono dunque incentivate. Dopo aver scavalcato la catena alpina il vento, impoverito di umidità, scende di quota e si riscalda: diventa dunque secco, più caldo e non è accompagnato da precipitazioni (il cosiddetto effetto foehn, n.d.r)».
Quella appena descritta è una situazione tipica delle Alpi e di buona parte dell'Appennino. «Su un versante il vento favorisce le precipitazioni, sull’altro il tempo è più caldo, soleggiato e asciutto. Naturalmente questa situazione vale in entrambi i sensi. Succede anche da sud a nord, con il vento di scirocco che si trasforma in foehn sui versanti svizzeri o austriaci», continua Cat Berro. «In parte il vento aggira anche le Alpi e, nel caso di flussi da nord, si incanala sotto forma di maestrale e tramontana tra Sardegna e Tirreno, e di bora sull’Adriatico».
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Punta Basei con l'omonimo ghiacciaio © Francofranco56 - Wikimedia Commons

Le stazioni meteorologiche d'alta quota

In relazione all’ipotetico aumento della ventosità sulle Terre alte, Cat Berro, Socio Cai da 31 anni, sottolinea un aspetto:
«Rispetto a qualche anno fa, sono state installate stazioni di rilevazione meteorologica a quote molto elevate. Di conseguenza, se in alta montagna c’è vento forte lo veniamo a sapere, cosa che non succedeva fino a non molto tempo fa. Così si spiegano gli articoli che leggiamo sui giornali, che danno la notizia di singole rilevazioni, non di trend temporali. E, spesso, lo fanno in maniera non molto precisa».
Cat Berro cita l’esempio dei dati diffusi dalla stazione posta sulla vetta della Gran Vaudala (219 km/h), nel gruppo del Gran Paradiso. «Questi dati, peraltro molto importanti per la conoscenza della ventosità alpina, si riferiscono alle raffiche registrate a 3272 metri di altitudine, non nei paesi a valle. È facilmente immaginabile come la velocità sia molto diversa al crescere dell'altitudine, ma spesso gli articoli che leggiamo non lo chiariscono».

L'aumento della ventosità non è certificato

Il punto focale che Cat Berro vuole evidenziare è che, al momento, queste prime disponibilità di dati derivati dalle stazioni meteorologiche d’alta quota
«non permettono ancora di realizzare studi statistici robusti di lungo periodo, ad esempio, negli ultimi cinquant’anni».
Ovvero i dati oggi esistono, e sul singolo episodio spesso fanno notizia. Ma non possiamo ancora sostenere con certezza che la ventosità su Alpi e Appennini sia aumentata nel tempo.
«Arpa Piemonte indica che le stazioni meteorologiche di montagna hanno mostrato un aumento dei giorni invernali con vento forte e in generale un incremento delle situazioni di foehn. Il segnale è interessante, tuttavia deriva da serie di misura ancora brevi (dell’ordine dei vent'anni), e sarà necessario raccogliere via via altri dati per avere conferma se si tratti o meno di una tendenza significativa su periodi più lunghi, e non solo sulle Alpi occidentali».
Anche sulla tempesta Vaia, Cat Berro sottolinea come si sia detto e scritto che un evento meteorologico di questa entità non fosse mai avvenuto sulle Alpi. «Senza nulla togliere al disastro di rara entità che ha penalizzato soprattutto i rilievi del Nord-Est italiano, io non azzarderei affermazioni così perentorie. Episodi simili in realtà sono già successi in passato. Ad esempio, il 4 novembre 1966, data famosa per l’alluvione di Firenze e l’acqua alta di Venezia, ci fu una tempesta di scirocco distruttiva sulle Alpi orientali, dal Trentino alla Carinzia, con una dinamica molto simile a Vaia. Non ne sappiamo molto, perché all'epoca non esistevano stazioni meteo in alta montagna, però le cronache parlano di distruzione di boschi molto estese. Forse non al livello di Vaia, ma i danni furono comunque ingenti. E molto tempo prima, nel 1882 ci fu un altro episodio del genere, sempre in Veneto e in Trentino».
effetto foehn
Tipiche nubi dovute all'effetto foehn © Simon A. Eugster

Vento e crisi climatica

Vaia non è stato dunque un evento completamente nuovo. E bisogna prestare attenzione anche ad affermare che queste tempeste, prese come singoli eventi, siano conseguenza esclusiva della crisi climatica.
«L’aumento delle temperature potrebbe averle rese più intense e frequenti, ma non è la causa prima del loro manifestarsi, così come avviene invece, per esempio, con il ritiro dei ghiacciai, determinato senza dubbio dal riscaldamento di origine antropogenica».
Si tratta dunque di eventi ciclici? A Cat Berro questo termine non piace, perché in generale porta a pensare – erroneamente – che i cambiamenti climatici attuali siano frutto di una ciclicità naturale, anziché di una tendenza rapida e inedita innescata dalle crescenti emissioni di gas serra nell'aria.
«A differenza dell'aumento di temperatura media, giunto a +2 °C nell’ultimo secolo e mezzo sulle Alpi e inequivocabilmente connesso alle attività antropiche, nel caso di fenomeni saltuari, irregolari e relativamente poco comuni nelle singole località - come tempeste di vento e nubifragi - individuare un legame, ancorché probabile, è meno scontato. La domanda più corretta non è tanto “è colpa del riscaldamento globale?”, quanto “in quale misura il riscaldamento globale può aver contribuito a rendere certi fenomeni più frequenti e intensi?”».
Un ulteriore raccolta e analisi di dati in futuro potrà fornire risposte più precise.