Simone Moro
Alla guida del suo elicottero. Archivio personale
Simone Moro, archivio personale
Simone Moro, archivio personale
Simone Moro in cima allo Shisha Pangma d'inverno
Simone Moro
Simone Moro"L'esplorazione vera non sta nel percorrere ciò che è già stato realizzato, e farlo nello stesso modo, bensì nel provare a spostare i limiti, sia tecnici sia conoscitivi, e nel continuare a spingersi verso l'ignoto".
È una citazione del nuovo libro di Simone Moro, “Gli 8000 al chiodo”, in cui l'alpinista affronta il tema delle spedizioni commerciali che, dal 1996, hanno invaso le cime oltre gli 8000 metri, cambiando il modo di fare alpinismo.
Nel libro Simone Moro racconta anche la sua esperienza personale da alpinista, che descrive con queste parole: "Fino ad allora, lo scalatore dell'Everest era sempre stato visto come un personaggio particolare, dotato di qualità fuori dal comune e degno del rispetto che meritava quella sorta di laurea in avventura che si era guadagnato con le sue forze".
Il fil rouge del libro sembra essere il cambiamento, accolto da alcuni con sospetto e da altri con entusiasmo. Un cambiamento che, nonostante i giudizi di valore, sembra essere connaturato all'uomo, al desiderio di avventura e alla curiosità di esplorare il mondo oltre i limiti già fissati.
Abbiamo raggiunto Simone Moro a Bergamo per intervistarlo sul suo nuovo libro, e non solo.
Ciao Simone! Entriamo subito nel vivo delle domande. Perché il titolo “Gli 8000 al chiodo”?
È un titolo un po' provocatorio. Oggi l'alpinismo esplorativo, avventuroso, degli Ottomila per le vie normali è stato appeso al chiodo durante la stagione favorevole, cioè aprile e maggio. Quel tipo di alpinismo fatto di preparazione massima, di autosufficienza, come quello di Messner o Bonatti, non esiste più in questi mesi. C'è solo turismo d'alta quota, quello che Hans Kammerlander ha chiamato “carnevale d'alta quota”.
E che tu, nel tuo libro, hai definito “safari d'alta quota”.
Esatto. Oggi se uno vuole vedere la tigre o l'elefante prenota un viaggio organizzato, si mette sulla jeep, protetto da una gabbia metallica, e osserva la natura da spettatore. Non serve essere preparati né conoscere l'arte della sopravvivenza, perché c'è una guida che ti spiega tutto. Stessa cosa per le spedizioni commerciali: si compra un biglietto, ti organizzano un safari sulla vetta dell'Everest e ti creano questa gabbia formata da 10 bombole di ossigeno, sherpa che ti portano lo zaino, ti montano la tenda, ti fanno da mangiare, ti dicono quando partire, ti mettono i ramponi, provano a limare il più possibile i pericoli e ti portano fin sulla vetta delle montagne per le quali tu hai pagato.
Come ti è venuto in mente questo titolo?
Ci ho pensato al semaforo a Kathmandu mentre andavo in aeroporto a iniziare la mia giornata da soccorritore di pilota di elicottero.
Che succede quando si incontrano le spedizioni commerciali in alta quota?
Si crea una fila di persone e non si può salire in modo diverso, non c'è proprio lo spazio fisico per sorpassare o fare una scalata in solitaria. Sei in mezzo alla bolgia. È la stessa fila che si vede anche in Italia, sul monte Seceda o in altre località turistiche famose delle Dolomiti: tutti in fila con la guida a prendere la funivia. Comunque è un problema contenuto, perché si tratta solo di 2 mesi l'anno e riguarda i 14 Ottomila, ma di montagne ce ne sono milioni e di mesi ce ne sono 12. Chi vuole fare esplorazione, avventura, deve andare altrove.
Questo fenomeno non riguarda solo gli Ottomila, appunto. Oggi dovunque ci sono associazioni e guide che ti portano in montagna.
Ogni catena montuosa ha le sue vette che vengono prese d'assalto, dove si fa la fila per salire. Anche in Italia accade, come dicevo, per esempio sul monte Seceda, sulle Tre Cime di Lavaredo, in Val Gardena, a Canazei. Il punto è che la montagna è anche altro. Sono altre cime, altre catene montuose. altre valli di cui però non si parla. Infatti, su altre vette, sia italiane, dell'Himalaya o del Karakorum, non ci sono file. Per risolvere il problema delle file in vetta, bisogna cominciare a narrare altre montagne.
Non c'è il rischio di capitalizzare troppo la montagna? Che venga frequentata in modo troppo turistico?
Bisognerebbe predisporre un vero e proprio Piano Marshall per la montagna, a partire dalla formazione su cosa significa frequentarla. E poi renderla attraente per i giovani, fare promozione, parlare di Alpi Orobie, Marittime, piemontesi, orientali friulane; narrare le valli spopolate, tipo la Valle di Domodossola, la Val Formazza, la Valle Stura, la Val Gesso, la Val Brembana, la Val Seriana. Ci vuole un piano che parta dal Ministero del Turismo, bisogna investire denaro per distribuire meglio questo fenomeno.
Tornando al libro, nella parte iniziale hai detto che te venivi dal mondo dell'arrampicata quando ti sei avvicinato all'Everest, e non eri ben visto da chi scalava quella cima. C'è la stessa ostilità anche nei confronti delle spedizioni commerciali?
Più o meno sì, perché molti dei miei colleghi sono classisti, vorrebbero che le montagne fossero solo per quelli bravi come loro, mentre tutti gli altri devono rimanere a casa ad applaudirli. In realtà bisogna cogliere anche il buono che queste spedizioni hanno portato, perché hanno reso chiaro che bisogna andare altrove per fare esplorazione, che bisogna scegliere stagioni diverse. Oggi non c'è più spazio per avere gloria facendo la via normale di un Ottomila nella stagione più favorevole. Ormai questa cosa non fa più notizia. E poi queste spedizioni hanno portato ricchezza in un Paese povero. Oggi le condizioni sociali sono cambiate tanto grazie a questo indotto turistico.
Ma bisogna capire com'è distribuita questa ricchezza.
Non è equamente distribuita, ma questa sarebbe un'utopia.
E parlando della tua esperienza sugli Ottomila, nel libro hai detto che ci sarà una nuova spedizione quest'anno. Di che si tratta?
Tornerò sul Manaslu (in invernale, ndr), perché non sono ancora riuscito a raggiungere la vetta. Non ho mai trovato le condizioni ambientali, meteorologiche o di sicurezza che mi hanno permesso di arrivare in cima e tornare a casa sano e salvo. È una delle prime cose che vorrei insegnare a chi mi segue: l'esercizio della pazienza e della rinuncia è il segreto per diventare, non solo un bravo alpinista, ma anche un vecchio alpinista. E poiché non mi manca la virtù della pazienza, ci riprovo finché non ci arrivo.
Sull'Everest invece sei salito quattro volte. Ci torneresti?
Assolutamente sì!
E perché salire più volte sulla stessa montagna?
Perché ci sono andato in quattro modi di diversi: la prima sono salito da sud, la seconda da nord, la terza ho fatto la traversata sud-nord e la quarta sono salito e sceso in 48 ore. Quindi era un Everest diverso ogni volta, a riprova che la montagna non è usa e getta. Puoi tornare sulla stessa montagna per rinfrescare e riscoprire le stesse emozioni. Puoi anche tornare sui tuoi passi, rifarli, compierli in modo diverso per scoprire un'altra versione di quello che pensavi di conoscere. Anche questo è un modo di esplorare.
Ci dici una parola o una frase per descrivere ognuna delle tue scalate sull'Everest?
Mmh, allora. La prima volta è stata ambizione, volevo vedere se ero capace di salire sull'Everest; la seconda volta è stata condivisione, perché sono salito con Mario Curnis, volevo condividere il suo sogno; la terza volta era esplorazione, volevo scavalcare l'Everest; la quarta è stata prestazione, volevo vedere se sapevo andare e tornare in velocità
Sei stato soddisfatto in tutte e quattro le occasioni?
No, in nessuna sono stato soddisfatto pienamente perché per ragioni diverse ho dovuto usare l'ossigeno, anche se solo per qualche minuto o per mezz'ora. Non ho ancora scalato l'Everest come voglio io. Molti miei colleghi alpinisti non parlano di queste cose, ma parlare di un fallimento serve per motivarsi e responsabilizzarsi rispetto agli obiettivi che si vogliono raggiungere. Fallire vuol dire posticipare il successo, non vuol dire umiliarsi.
Durante le tue spedizioni sugli Ottomila, hai incontrato alcune di queste spedizioni commerciali. Hai qualche aneddoto da raccontare?
Mi è capitato di vedere gente che si metteva i ramponi come avrebbe indossato gli scarponi da snowboard. Lì ho capito non solo il tipo di alpinismo che si faceva, ma anche il livello di babysitting alpinistico che fanno gli Sherpa e le guide a gente completamente impreparata.
E con il tuo lavoro da pilota di elicottero ti capita di salvare alcuni di questi turisti?
Sì certo. Io sono uno strumento di queste spedizioni commerciali. In teoria sono parte dell'industria del malcostume agli occhi di qualcuno. Ma penso che l'alpinismo e la montagna siano libertà, e rispetto anche chi ha bisogno di tutta questa industria perché non sta togliendo nulla a nessuno. Bisogna solo stare attenti che i turisti non sporchino e non inquinino. Ma posso dire che le spedizioni di oggi sono molto più pulite delle mie di 30 anni fa. Ci si controlla a vicenda, si usano pannelli solari, con gli elicotteri si porta giù l'immondizia.
Dal libro si percepisce che non c'è un tono polemico nei confronti di questa industria.
Infatti. Sono felice che una parte dell'alpinismo sia stata invasa da questi turisti, così smettiamo di trovare l'ennesimo finto protagonista che scala gli Ottomila e racconta questa cosa come una grande impresa. Ritengo che questo fenomeno sarà uno stimolo per un rinnovamento dell'alpinismo, che altrimenti rischiava di ristagnare sotto la solita collezione dei 14 Ottomila.
Inoltre scrivi che, nonostante questo, l'alpinismo ci sarà sempre. Come mai sei così sicuro?
Perché l'uomo c'è da sempre e, nonostante si fa le guerre, non è mai scomparso. Ogni realtà umana affronta dei cambiamenti che per i vecchi sono degenerativi, ma in realtà danno nuova linfa vitale e modo a chi ha voglia di fare qualcosa di diverso di farlo.
E invece qual è la motivazione che spinge te a fare l'alpinista?
Perché da sempre mi rende felice. La mia felicità è in montagna e non voglio mollarla. È un atto di egoismo anche fare alpinismo, ma mi rende felice e migliore anche come compagno, come padre, come amico. E la felicità è contagiosa.