Maglietta bianca, capelli biondi, fisico asciutto. Giovanni Ludovico Montagnani emana energia positiva mentre parla del suo primo libro, Dopo l’incidente. E se andasse tutto molto meglio del previsto? (pp. 240, 19,50 euro, Monterosa Edizioni). Chi non conosce la sua storia, a vederlo serenamente incorniciato da muri bianchi e travi in legno chiaro, nella sua casa a zero emissioni nel cuore dell’Alto Vergante, non può nemmeno immaginare cos’abbia passato negli ultimi due anni.
Due anni esatti da quel 3 luglio 2022 in cui tutti guardavamo con orrore al collasso del ghiacciaio della Marmolada di Rocca, mentre lui precipitava per 40 metri scalando la Diretta 78 del Mittelrück o Pizzo Loranco (3.363 metri), una delle montagne più iconiche dell’Ossola che si specchia nel Lago Maggiore (nel 2021 l’accademico varesino Tommaso Lamantia, adesso impegnato nella spedizione biellese a Broad Peak e K2, vi ha aperto Rück n Roll, via di 7b+, con Fabrizio Manoni e Luca Moroni). È di questo incidente che parla il libro, di una schiena che si spezza all’altezza di L1, la prima vertebra lombare, della paraplegia che costringe quel corpo così allenato, quell’alpinista così esperto, a mesi di degenza in ospedale, e soprattutto della successiva riabilitazione, una lotta contro ogni verdetto medico che fatalmente decretava: “Non camminerai più”. Come si sarà intuito, non è andata esattamente così.
Giovanni, classe 1990, aiutato da una determinazione programmatica che tanto dice della sua impostazione mentale da ingegnere, e con il supporto della sua famiglia, ha fatto progressi inimmaginabili, tanto da diventare un campione paralimpico di canoa: parlano per lui i tre ori nei 100, 500 e 1000 metri ai campionati nazionali di settembre 2023, cui si aggiunge quello nei 5000 metri di marzo, a Sabaudia, sempre con il Circolo Sestese.
Del resto, Montagnani ai record era quasi abituato, nel suo passato da atleta endurance: nel solo 2020 ha ideato e compiuto la traversata con gli sci dalla Val Malenco a Davos, per sostenere Greta Thunberg al World Economic Forum, fra gli altri con la guida alpina Marco Tosi, che infatti scrive una toccante prefazione (l’avventura è narrata nel libro di Tosi, Sciare in un mondo fragile, Monterosa Edizioni). Pochi mesi dopo è partito da piazza della Scala a Milano in bicicletta e arrivato in 24 ore alla Capanna Margherita. È la filosofia “allontanare le montagne”, di cui è padre e primo esempio, trasposizione su gambe e fatica del forte sentimento ecologista che ne fa un convinto attivista per l’ambiente, impegno che porta avanti anche con il collettivo “Ci sarà un bel clima”.
È proprio il filo dell’attivismo che ricama nel libro un inaspettato taglio narrativo: la vicenda personale di Giovanni si salda infatti a quella del Pianeta, in un dialogo costante che analizza come si è arrivati a quell’incidente e come ora recuperare il più possibile dalla paraplegia, per capire come ha fatto l’umanità a perdere contatto con la Natura di cui è parte e soprattutto come può ora porvi rimedio. Ovviamente, da bravo ingegnere, argomenta ogni affermazione citando numerosi dati e ricerche.
E pensare che prima di prendersi un dottorato in elettronica nucleare sognava di fare l’illustratore. Una fantasia accantonata, ma non del tutto: i disegni del libro sono suoi, a partire dall'immagine di copertina.
Giovanni Montagnani, il libro si apre con i dati Arpa Piemonte sul clima nel caldissimo 2022 e prosegue con un parallelismo fra te e il Pianeta. È il tuo modo per dire che siamo parte di un tutto?
Si dice sempre che dobbiamo ricollegarci alla Natura, ma non significa prendere la macchina per spostarsi in un luogo più “naturale”. Il collegamento avviene tutto il giorno già solo per il fatto che respiriamo ossigeno, io non l’ho perso nemmeno quando mi trovavo in terapia intensiva, un’esperienza estrema che mette a dura prova tutti i sensi. Questo parallelismo per me non è un artificio retorico, il sentimento profondo di malessere alla vista di un ghiacciaio che si fonde l’ho sempre sentito, è per questo che sono diventato un attivista per l’ambiente, perciò l’ho voluto trasferire in maniera spontanea nel mio libro. Ne volevo scrivere uno da tempo, certo non avrei immaginato che avrei trovato tempo perché ricoverato in ospedale…
“Allontanare le montagne” per avvicinare l’alpinismo: significa macinare parecchi chilometri in orizzontale e verticale, in quanti davvero possono farcela?
Non nego che in un certo modo di fare alpinismo la performance conti molto, come sfida con se stessi, nella costante ricerca di vivere l’estremo, ed è bello poter aggiungere alla soddisfazione fisica quella ambientale. “Allontanare le montagne” è una strategia “simpatica” di decarbonizzazione, perché non è certo la singola gita della domenica in bicicletta a spostare i grandi numeri delle emissioni, ma a essere importante è il suo valore simbolico. Questo esercizio permette di valorizzare e scoprire un territorio, rimettendo i limiti umani al centro. Crea una visione, come fa per esempio Dario Eynard con il suo modo di fare alpinismo. E io continuo ad “allontanare le montagne” anche da disabile, raggiungendo da casa alcuni rifugi con degli amici, in e-bike. Ho solo bisogno delle colonnine per la ricarica, per fortuna nel mio territorio ce ne sono abbastanza. Da 6 mesi non uso più la handbike, ma ho ancora bisogno della pedalata assistita, anche se confido presto di poter usare una bici normale. E la soddisfazione di dire “ce l’ho fatta da solo”, avendo una grave disabilità, è incredibile. Significa che ce la possono fare tutti.
A che punto sei con la riabilitazione? Il sogno di tornare a camminare sembra avverarsi, contro ogni pronostico!
In bici riesco a fare un’ottantina di chilometri, e circa 400 metri di dislivello camminando con le stampelle e le ortesi. Riusciamo di nuovo a portare le bambine in montagna! In casa mi muovo con la sedia a rotelle per il semplice fatto che è più comoda. Una caviglia però è paralizzata credo definitivamente, quindi un piede è fuori uso. Ho ancora una fortissima debolezza alle gambe e mi cedono le ginocchia, per fare un gradino mi devo appoggiare, ma un anno fa non salivo un millimetro, letteralmente. Ora devo trovare il modo di compensare questa mancanza.
A cosa punti?
Ho l’ambizione di correre l’Ultra Trail del Monte Bianco, naturalmente con dei supporti speciali: lo so che è folle, ma se lo fa un amputato bilaterale, se il team Tre Gambe sale alla Capanna Margherita, perché io non dovrei farcela a correre e tornare a fare scialpinismo magari già questo inverno? So che adesso i miei progressi sono rallentati, e magari mi illudo, ma ho fatto talmente tanta strada, da dire che tra un anno avrò il doppio della potenza di adesso. La capacità di tenere duro che ho sviluppato prima, quando per esempio ho fatto Selvaggio Blu in giornata da solo, mi viene più utile che mai.
Come vivi la tua disabilità?
Mi è capitato che alcune persone si dispiacessero per me. Dovremmo invece normalizzare l’idea di avere una disabilità, lasciando la persona al centro, e smettere di pensare che una vita sulla sedia a rotelle non possa dare piene soddisfazioni. Sono ovviamente contento di avere sempre meno limitazioni nel movimento, perché la vita è più semplice da gestire, ma rifiuto il ragionamento “abilista” al contrario. Quando giravo in sedia a rotelle mi infastidivano molto tutti quelli che mi chiedevano se volessi una mano se mi vedevano in bagno: no, l’avrei chiesta io o mi sarei portato un accompagnatore! Per non dire di quelli che mi hanno incoraggiato vedendomi sulla handbike, salvo poi guardarmi male su una e-bike, che non mostrava la mia disabilità e invece era per me una grande conquista. Bisognerebbe giudicare di meno.
E la tua famiglia?
Nora, la mia bambina più grande, ha sviluppato per me un senso materno, abbiamo un rapporto profondissimo. Con Zelda invece fatico a prenderla in braccio, o ad accompagnarla in bagno, perché c’è sempre la sedia a rotelle di mezzo, fredda, dura, metallica, che si ribalta facilmente se si sbilancia, e quindi per lei sono diverso dalla mamma. Un genitore disabile deve compensare in altro modo, magari leggendo di più insieme, o viziando un po’… Ci tengo a dirlo: per i bambini non è tutto uguale come si dice. Con Francesca abbiamo vissuto momenti duri, senza dubbio, ma li abbiamo affrontati al meglio e ne siamo usciti rafforzati. Non è scontato riuscirci, un incidente del genere mette tutto in discussione nella vita di coppia. E ci è mancato un po’ di aiuto da fuori.
Un capitolo è dedicato ai segnali che hai trascurato, quel fatidico 3 luglio, e un altro a tutte le volte che l’hai scampata bella. Qual è per te il punto di equilibrio tra sfida e rinuncia?
Secondo me è fondamentale rendersi consapevoli di sé per capire quando è il momento giusto di tirare il freno. Non si può trovare soddisfazione solo nella sfida, vivendo sempre al limite, ma nemmeno sempre stare sotto al proprio livello. Io ora sono terrorizzato all’idea di rompermi l’osso del collo in bici, ma d’altra parte ho anche bisogno di lasciare andare il freno. Il punto sta nel sentirsi tranquilli. Basterebbe riuscire a trovare un limite dove pensiamo che la società non lo accetti per risolvere molti problemi, anche a livello internazionale. Il rischio zero non esiste, ma non dobbiamo sentirci in dovere di correrlo solo perché c’è la GoPro accesa, dovrebbe piuttosto nascere da un bisogno, che non può esserci sempre. Sicurezza in montagna significa trovare le ragioni per cui uno si vuole esporre al rischio e valutarle attentamente.
E se ripensi a quel giorno?
Quella è la consapevolezza: io quel giorno ho ignorato tutti i segnali, volevo accompagnare un caro amico che desiderava molto fare quella scalata, inseguivo la salita da curriculum, ero mosso dal costrutto sociale, perché ero uno forte, ma non scalavo da un mese. Un po’ mi vergogno di tutto quello che ho sbagliato, di spingere il limite per farmi bello sui social… Bisogna parlarne molto di più, perché quello è ciò che fa morire tanta gente in montagna. Accettiamo l’idea che qualcuno ci metta di più o abbia bisogno di più ausilio, rendiamola normale oggi, nell’epoca dei record, siamo tutti diversi e va bene così. Io stesso ci sto provando, non sono ancora stabile su questi pensieri.
È una lezione che hai imparato a caro prezzo…
In effetti avrei voluto impararla sulla pelle di un altro me, avrei voluto sdoppiarmi e vivere un prima e un dopo. Ma mi dispiacerebbe perdere tutto ciò che ho imparato in questi due anni.
Per te il 3 luglio è un giorno da festeggiare?
Per i due anni ho fatto un giro in mountain bike con il mio amico Boz, Lorenzo Bozzetti, che stava con me al Mittelrück. Ho fatto un volo di 40 metri e sono ancora vivo, come potrei non festeggiare? Non conosco nessuno con una paralisi che preferirebbe essere morto.
Sei più tornato al Mittelrück?
No, ma vorrei tornare almeno al Rifugio Andolla e prendere quel caffè che non avevo potuto bere perché era chiuso, quella mattina alle 7. Vorrei fermarmi a dormire, mangiarmi la polenta e magari il giorno dopo riuscire a dare una carezza alla parete. La strada verso un dislivello di 1500 metri è ancora lunga, ma ci tengo davvero tanto. Potrebbe diventare la mia “montagna sacra” e allora le dirò: tu ci sei, ma ci sono anche io.