La strangera. Intervista a Marta Aidala

Storia di una ragazza che cerca se stessa in montagna, lavorando in rifugio, un'esperienza che la cambierà per sempre, come è successo all'autrice, una torinese di origini siciliane stregata dal Monviso. Questo è il suo romanzo d'esordio.

Quando spunta sullo schermo del pc per fare due chiacchiere, Marta Aidala lo riempie tutto: con la cascata di riccioli neri che tormenta di continuo, arrotolandosi sulle dita la ciocchetta decolorata un giorno per noia, con la sigarettina arrotolata ad occhi chiusi, e con la mano che accarezza il braccio tatuato. Un largo sorriso la illumina dentro e fuori, mentre pregusta – non senza timori – l’uscita del suo romanzo d’esordio, dopo il diploma alla Scuola Holden di Torino: esce domani La strangera, per Guanda, l’editore del suo amato Sepulveda (pp. 336, 18 euro, 2024).

La trama è semplice e ricalca il tempo lento della vita in montagna, dove sembra che non accada nulla, perché non siamo abituati a dare importanza alle piccole cose. Beatrice lascia Torino e l’Università per andare a lavorare in un rifugio d’estate sotto l’ala della Becca protettrice, dove decide di restare anche in inverno. Intorno a lei si muovono pochi personaggi ben definiti: il Barba, rifugista ruvido, montanaro verace dal passato insospettabile che le insegnerà ogni cosa, uno che tutti vorremmo incontrare («c’è un Barba in ogni rifugio, io ne ho due, sono nella dedica», confessa lei); i colleghi (tutti maschi, tutti già con le idee chiare sul loro futuro); Elbio, un malgaro con cui nasce una storia timida, pastore romantico legatissimo alla sua terra, da cui non andrà mai via. E Valeria, amica a prima vista, che fa il suo stesso lavoro. 

La scrittura è solida e senza fronzoli, la struttura narrativa ad anello spiazza non prendendo il via dalla protagonista. La storia si legge e si vede, potrebbe essere un film, nonostante l’assenza di colpi di scena. Domina su tutto il ritmo imposto dal lavoro in rifugio, fatto di sveglie antelucane e olio di gomito, dove ogni minuto è utile e nulla è regalato. Quella vita è un sogno cercato e guadagnato con fede cieca, finché un giorno un incidente mortale rompe l’idillio. Bea si sente improvvisamente soffocare fra quei monti prima adorati, deve scendere, ma arriva la neve. Come va a finire non è così importante, è già tutto successo su, al Rifugio, col Barba, che ha plasmato una nuova Bea, in grado di capire che è tempo di andare se vuole trovare la propria strada. Sono entrambe accanite fumatrici, lei e l’autrice, per il resto i tratti che hanno in comune sono pochi, sebbene forti. «Anche io ho mollato Lettere Moderne a tre esami e mezza tesi dalla laurea, e sono salita per la stagione invernale, quindi sono stata subito temprata dai meno 30 gradi e da giornate in cui alle 8 di sera hai già finito di cenare da due ore, senza aver incontrato nessuno», racconta. «Era il 2018, avevo 22 anni, ho riempito il mio zaino da 38 litri e sono partita. Mi andava bene così, anche se a volte è stata dura. Mi sono buttata con dedizione, imparando tanto dai colleghi e dal rifugista. Ho sbagliato a scendere, ma quando l’ho capito è scoppiato il covid e non sono potuta tornare. Però di me sapevo tre cose: amavo scrivere, leggere e la montagna».

Marta Aidala, qui in Val d'Ala. Foto dell'autrice.

Per Marta, la passione per le vette nasce per partenogenesi una mattina d’aprile, mentre passeggia ai Murazzi “balzando” la scuola: «Avevo 16 anni. Mi giro e vedo il Monviso dal Lungo Po Antonelli, era ancora innevato. Era bellissimo e mi sono resa conto che in montagna non ci ero mai stata: i miei sono siciliani, non mi avevano mai portata, né io avevo mai pensato di andarci, pur da appassionata di religioni sino-tibetane, con un buon numero di libri letti su Tibet, Nepal e Ladakh. Mi è venuta voglia di esplorare quel mondo sconosciuto. Da allora dico sempre: la mia famiglia viene da un’isola, io dalle montagne. E il Monviso me lo sono tatuato». 

La passione per l’arrampicata è arrivata dopo, come le grandi camminate, fino alla decisione di mollare tutto per il lavoro in rifugio (con buona pace dei suoi genitori). Il Lungo Po come una via di Damasco, ma molto più laica: «Odio quando la gente dice che la montagna ti salva. Ti salvi tu, a prescindere, ovunque tu sia. A me ha fatto bene aver preso una scelta per la prima volta nella mia vita: volevo provare a vivere in montagna e lo stavo facendo. Come dice il Barba, ci sono luoghi che sono la casa che ti scegli: io là stavo bene. Vedevo l’alba, sentivo il vento, il silenzio mi vibrava dentro. Era la mia dimensione, anche quando iniziavo a spalare neve alle 6 o salivo con 40 chili di pane sulla schiena per un’ora e mezza: chi dice di volersi trasferire su dovrebbe provarle, queste cose, lo dico a costo di sembrare cinica e snob, ma sono contraria a una visione poetica della montagna, di cui bisogna saper vedere anche il lato scuro e chiuso».

Quale montagna non è specificato: Aidala scuce un generico Alpi Cozie, ma si intuisce che dentro ci sono le vallate piemontesi a lei care: «La Val Pellice, la Valle Po, il Chisone, le Valli di Lanzo. Uno dei posti che amo di più è Punta Aquila, dove non va praticamente nessuno, c’è una vista spettacolare sulla Val di Susa e la Valsangone. Ho anche iniziato ad apprezzare la Valsesia e posti come la Val d’Otro. Evito ormai il Monviso o il Rocciamelone, per non parlare del Monte Rosa, meglio restare in basso, pur di sentire la montagna che respira. E io so camminare in silenzio per 8-9 ore. Non sopporto se c’è troppa gente: quando ho visto uno che lavava il cocomero nel Lago Verde in Valle Stretta non ci potevo credere. Trovo davvero triste che si lascino dei rifiuti in posti così belli».

Sono molti i temi del dibattito attuale sulle Terre alte, che la finzione narrativa scioglie nella trama con naturalezza, ciascuno a tempo debito: lo spopolamento e la sostenibilità del turismo e dell’economia locale, l’impatto dell’industria della neve (e delle grosse gare sportive) e lo scarso rispetto per l’ambiente anche da chi si professa “un appassionato”, la coesistenza con i grandi carnivori (qui il lupo), l’alpinismo come ansia da prestazione. Che anche Marta ha sperimentato, iniziando ad arrampicare: «La mia frequentazione più tecnica della montagna mi aveva allontanato dalla curiosità iniziale, dal piacere di godermi paesaggi come in Val di Susa il Bosco di Salbertrand o il Thabor in fondo alla Valle Stretta. Non ci sono Grandes Jorasses o Petit Dru nel mio curriculum, ma mi interessava solo la difficoltà, non la meta, non c’era più senso di pace nell’andare e nel sudare. Avevo iniziato ad arrampicare per poter arrivare in luoghi meravigliosi altrimenti inaccessibili, ma era diventata un’ossessione, perché arrampicare è uno sport e allora ti devi allenare sempre per rimanere a un certo livello, per essere forte, tanto più che sono una donna, sentivo di dover dimostrare di più, anche se le mie piccole dita nelle fessure si infilavano meglio di quelle dei maschi». 

Donna e cittadina. “Fumna e strangera”. Donna, cioè potenzialmente debole e inadatta ai lavori pesanti, uno status amplificato dal fatto di essere straniera, perché nei rifugi d’alta montagna, soprattutto, a lavorare ci vanno i ragazzi delle valli, magari figli di amici, non quelli della città. È indubbio che questo sia il tema portante di tutto il romanzo: il rapporto fra cittadini e montanari, fra la montagna vista “da giù” e “da su”, da chi ci vive e da chi ci si vuole trasferire, forse senza avere troppa cognizione di causa, pensandola in fondo come negazione della città. In questo il romanzo riesce a dare la giusta misura della questione: Bea è una cittadina che in montagna si sente a casa, ma che scopre presto quanto quella casa sia difficile da capire e da accudire, quanto possa diventare anzi ostile e spietata. «Ci tengo a dirlo – si inserisce Marta – lassù tutti si chiamavano montanari, ma montanari non ce n’erano, sicuramente non lo sono io, persona nata e vissuta in città che in montagna ha sperimentato certe dinamiche, quindi al massimo il mio può essere il punto di vista di chi sta in mezzo. I montanari locali la montagna la vogliono aprire, perché questo ha sempre portato soldi, siamo più noi da giù che contestiamo certe scelte, dando allo stesso albero un valore affettivo diverso (il riferimento esplicito è alla pista da bob a Cortina, che contesta visceralmente, NdR). E noi siamo gli stessi che spingiamo l’economia montana a stare al passo delle nostre richieste incessanti: dico queste cose sapendo che la mia visione è parziale, ho ancora tanto da imparare». 

Tornando a quel lato oscuro cui accennava: «In montagna ci sono persone troppo radicate nel loro modo di pensare, hanno paura del fuori, però anche giustamente: aprire troppo non va bene, la montagna non è adatta a tutti, non è vero che tutti possono andare ovunque. Ho letto che per il caldo sempre più persone si trasferiranno in alto: il rischio è quello di trasformare la montagna in città, perché dei suoi bisogni i cittadini non sanno nulla e spesso nemmeno si curano». Un esempio banale? «Chi chiede le patatine fritte o il gelato in rifugio non sa cosa significa avere energia elettrica lassù! Sono temi difficili che spesso non hanno una risposta univoca, giusta o sbagliata».

L’esperienza in rifugio dev’essere stata davvero forte per Marta Aidala, di quelle che segnano un prima e un dopo. Non solo perché ancora oggi la sera a letto legge con la frontale, che penzola dal comodino. Ma allora perché scendere? «Il rifugio è un crocevia, anche se non amo questa parola, oltre ai clienti passano pastori, guardiaparco, botanici, geologi, la forestale, da noi erano arrivati perfino dei sismologi e alcuni americani per studiare la flora alpina. È un ricettacolo di storie, che io amo fin da quando ero bambina. Ma la vita lassù ti assorbe talmente tanto, che non esiste nient’altro. Ogni tanto tornavo, ma mi faceva paura. Dormivo per un giorno, da quanto ero stanca, vedevo degli amici (pochi e sparpagliati: uno è il fotografo Federico Ravassard, NdR), ma nessuno mi capiva e io non sapevo cosa fare. Ne ho parlato con il gestore: mi ha detto che avrei dovuto scegliere. Mi sentivo divisa, sono scesa per capire. A valle quella vita mi è mancata ogni giorno. Mi arrangiavo, lavoravo come commessa e barista in discoteca, mentre mi ripetevo “ma chi me lo ha fatto fare a scendere”?».

Però dopo qualche mese e un lavoro infelice, è rifiorita la scrittura ed è maturato il coraggio di provare il test alla Holden, una delle più prestigiose scuole di scrittura d’Italia, con sede a Torino. Nel Master biennale con borsa di studio Marta si è buttata con la dedizione che riserva alle cose cui tiene, senza mollare tutti i suoi lavori, fino a che non ha iniziato a scrivere il romanzo: una scelta sofferta, rivela. «Avevo paura a scrivere narrativa, perché ci metti tutto di te e chi legge ti vede nuda. Infatti volevo fare giornalismo. E non volevo scrivere di montagna, perché ho vissuto l’essere scesa come una forte sconfitta personale, ma poi le dita mi volavano, le parole mi uscivano dalla bocca dello stomaco. Ho dovuto accettare che la montagna fosse ancora una parte così importante nella mia vita. E ho capito che era la mia strada. A gennaio 2023 mi sono dedicata totalmente al libro, i miei personaggi erano ormai reali per me, ero in montagna con la testa, allora ho deciso di andare a scrivere là. E ho smesso. Ero distratta. Aveva ragione chi mi diceva: non si può scrivere di montagna in montagna, perché serve la malinconia».

Lavora ancora in una libreria, ma per poco, perché dopo l’anteprima agostana a “Una montagna di libri” a Cortina parte il tour promozionale (fittissimo, come è giusto, se si vuole puntare su una giovane autrice) e dovrà tenersi libera. «Provo a non avere aspettative, spero che il libro piaccia, di certo non l’ho scritto per invitare la gente in montagna, anzi, penso di fare l’effetto opposto. Non ci sarà un sequel, un’altra idea mi balla già in testa». Insieme a un progetto di vita: «Torino mi ha cresciuta, mi ha accompagnata per tanto tempo, ma è da anni che non abbiamo più nulla da darci, quindi non so quando, e non escludo nemmeno di tornare a lavorare in rifugio per un po’, ma spero che un giorno, non troppo lontano, troverò un mio posto per stare nella montagna di chi resta. Io l’ho annusata». E com’è? «È quella dove si fa legna e le finestre hanno un po’ di spifferi, dove vicino a casa c’è il bosco, dove esci sempre con gli scarponi ai piedi, e vivi fuori, ma vicino a un paese dove tutti ti conoscono. Io lì potrei fare qualunque lavoro».

Marta Aidala a Punta dell'Aquila. Foto dell'autrice.