Il libro della settimana. Il sentiero selvatico. Intervista a Matteo Righetto

Storia di Tina Thaler, la misteriosa cacciatrice della Stanza delle mele, di come diventò una selvatica, inseguendo lo spirito dei luoghi e insegnando anche a noi che riscoprire la sacralità della natura è forse l'ultimo modo per attuare una vera conversione ecologista. Perché anche l'uomo è natura.

L’associazione internazionale dei geologi ha di recente decretato che l’Antropocene non è un’epoca geologica, non ci sono abbastanza prove scientifiche. L’affermazione ha suscitato molte polemiche e qualche spunto, come quello che viene dall’antropologo Matteo Meschiari, il quale invita a superare il concetto di Antropocene facendoci guidare dagli universali antropologici di rito, mito e sacro, su cui si fonda l'antica sapienza delle popolazioni indigene, che può diventare rimedio contro l’eco-ansia generata dalla convinzione che il mondo in cui viviamo sia ormai perduto per sempre. Ed è proprio di questo che parla l’ultimo romanzo di Matteo Righetto, Il sentiero selvatico» (pp. 240, 18 euro, Feltrinelli 2024), nato da La stanza delle mele (2022). Infatti racconta la storia della cacciatrice Katharina Thaler che nel precedente compariva in un cammeo talmente potente, da guadagnarsi un libro tutto per sé. Libro che sarà presentato al Trento Film Festival il 30 aprile e poi al Salone del Libro di Torino il 12 maggio.

Tina è indiscutibilmente un’"indigena", un’anguana, una sciamana, nata con un legame così forte con la sua terra e con la natura in cui è cresciuta, da scegliere di diventare una “selvatica”. Obbedisce al richiamo fortissimo del Monte Pore e di tutte le montagne, i boschi, gli animali intorno al paesino di Larcionèi, in Fodòm, nome ladino dell’odierno Livinallongo, nelle Dolomiti Bellunesi, teatro di cruente battaglie per il possesso del Col di Lana durante la Prima guerra mondiale. L’adolescenza di Tina si svolge in quel periodo durissimo in cui, come molti ladini, vive da sfollata in Val Badia mentre l'amato padre combatte al servizio dell’imperatore austriaco, per poi ritrovarsi italiana, come tutti gli abitanti della Ladinia e in generale dell’ex Tirolo. E in più deve subire l’ostilità della sua comunità, che la considera una “stria” da quando a 10 anni era misteriosamente sparita per una notte nel giorno dei morti, mentre da un mese imperversava una pioggia incessante.

Piove a dirotto in quel momento che segna profondamente la vita di Tina, proprio come quando il piccolo Giacomo Nef trova l’impiccato al Bosc Negher, nella Stanza delle mele: entrambi saranno per sempre diversi, dopo quegli episodi. Entrambi ragazzini capaci di vedere cose invisibili ai più, entrambi nati con uno speciale senso appartenenza ai luoghi da cui provengono. È un tratto comune anche ad altri romanzi di Righetto, tanto che nel 2017 Il CineAmbiente Festival di Torino gli ha assegnato il premio “Le Ghiande” per la capacità di descrivere l’azione del paesaggio e dell’ambiente sulla vita dei protagonisti dei suoi libri. E in fondo anche lui, originario di Padova, ha subito quel richiamo, trasferendosi a vivere a Colle Santa Lucia, un paesino incastonato nel meraviglioso scenario dolomitico circondato da Pelmo, Marmolada e Civetta, dove ha ambientato anche il best-seller La pelle dell’orso (2013), diventato un film nel 2016 con Marco Paolini, ispirando due percorsi letterari nel Bellunese, aperti nel 2018 e nel 2023, l’Alta Via dell’Orso 1 e 2.

Matteo Righetto. Foto dell'autore.

 

Matteo Righetto, perché hai sentito il bisogno di dedicare un libro a Tina Thaler?

Il personaggio di Tina mi ha affascinato profondamente mentre scrivevo La stanza delle mele, quando sentivo e mi immaginavo già molto di quello che poi ho raccontato nel Sentiero selvatico. Per me, da autore e da lettore, era irresistibile, come Mark Twain e tutti quei personaggi che fin da bambino hanno costituito delle pietre miliari del mio immaginario. Mi chiedevo che vita avesse avuto, perché si vestisse così, perché vivesse isolata nei boschi, emarginata dalla società civile…Mi è venuta voglia di conoscerla, e ho capito che dovevo raccontarmela da solo, questa storia. 

Tina è più che un simbolo, è l’allegoria di un modo di vivere in sintonia profonda con la Natura che strega il lettore e ne cambia lo sguardo.

Tina rappresenta davvero l’allegoria di un modo di vivere i luoghi e le relazioni intorno a noi, tra esseri umani e anche tra umano e non umano. È il filo che ci ricollega all’antica sapienza, alla sacralità dei luoghi – intesa in termini non confessionali – che la secolarizzazione della società ha completamente perduto, rifiutato, anzi peggio, dimenticato, preferendo i non luoghi. Come se nei confronti di quella sacralità ci fosse stata una sorta di damnatio memoriae collettiva, lenta, ma inesorabile. Dovremmo riscoprire questo legame anche in città, perché fa parte della nostra coscienza.

Questo è il selvatico?

Selvatico si contrappone a domestico, addomesticato significa ricondotto a casa, dunque controllato, ingabbiato. Il selvatico invece rappresenta proprio un flusso vitale di libertà, che vedo nel germoglio di abete rosso che rinasce dopo Vaja o in quello di rododendro in alta quota. Il “sentiero selvatico” è una via che ci indica una possibilità, anche se non voglio fare la retorica del buon montanaro o della buona natura. Rappresenta il ristabilimento degli equilibri e il rispetto dell’altro, qualsiasi forma abbia. In questa epoca viene al contrario usato come capro espiatorio. C'è chi ha fatto campagna elettorale contro l’orso. 

Qui scrivi di lupi, anzi di lupe… 

Il lupo viene considerato un pericolo pubblico, quando in realtà non solo non ci sono attacchi di lupi nei confronti degli uomini, ma non ci rendiamo conto, come la comunità in cui vive Tina, che il mondo sta prendendo fuoco. E noi diamo la colpa ai lupi! Allora il “sentiero selvatico” è forse l’ultima possibilità che abbiamo, è il richiamo a una conversione ecologista, a riscoprire non l’ambiente fine a se stesso, ma noi come ambiente. Mi piaceva che fosse una ragazza a lanciarlo, perché la donna è da sempre soggetto preferito di questo vituperio: è la strega, la “stria”

Tra le tue fonti di ispirazione ci sono libri che parlano delle popolazioni indigene di Alaska, Lapponia, Nordamerica. Dobbiamo recuperare la loro saggezza, i loro miti e riti sacri, come fa Tina?

Questo è il senso più importante del libro: l’esortazione a riscoprire la sacralità e lo spirito dei luoghi. Ne sto scrivendo per Feltrinelli in un saggio che uscirà a gennaio 2025. Gli antichi romani interpellavano sempre il genius loci prima di costruire, oggi invece consumiamo suolo in maniera spregiudicata. Da presidente di una Sezione CAI di frontiera tutti i giorni devo lottare per salvaguardare il mio ambiente. Volevo che Tina fosse così: un’indigena legata alla sacralità del territorio, come ritroviamo nella letteratura latina, ma con molte analogie in quella irlandese, norrena, nei nativi americani, di cui parla Scott Momaday. Non sarà solo la scienza a salvarci dal collasso climatico, perché ci fornisce sì i dati di ciò che accade, ma non genera la stessa empatia di un romanzo, in cui un lettore può immedesimarsi. Dobbiamo tornare a chiederci dove risiede la felicità.

Citi il Premio Pulitzer Scott Momaday: questo libro è la tua “dichiarazione di appartenenza” al mondo ladino, come la chiama lui in Custode della terra? 

Sono un uomo senza frontiere, quindi sono legato alla cultura ladina come a qualsiasi minoranza culturale, perché amo le “bioculture”. Se iniziassi ad approfondire una particolare comunità abruzzese mi innamorerei di quella. Inseguo lo spirito dei luoghi, il selvatico contrapposto al domestico.

Miti e leggende ci salvano, scrivi, perché?

Perché l’antica sapienza rappresenta quel cordone ombelicale al quale ci si può aggrappare per non precipitare. È ciò che per ognuno di noi rappresenta il legame con la famiglia o gli affetti più importanti, sono le grandi cose in cui crediamo a tenerci in vita. Collegano il nostro passato al futuro, ma anche noi alla comunità. Se ci smarriamo, se perdiamo il senso dell’equilibrio scoppiano le guerre, come vediamo. Ci salviamo solo aprendoci agli altri e scoprendo in loro la stessa identità, lo stesso valore che abbiamo dentro di noi.

Da dicembre sei presidente della piccola sezione CAI di Livinallongo-Colle Santa Lucia: annunciavi di volerne fare un punto di riferimento culturale, come sta andando?

È una piccola sezione che sta crescendo tantissimo, ne siamo molto felici: a fine novembre eravamo 120 soci, adesso siamo 220, e in più abbiamo quasi raggiunto la parità fra uomini e donne, con un sensibile abbassamento della media anagrafica. Tra noi ci sono giornalisti come Luca Martinelli, di “Altreconomia”, e Raffaella Di Rosa, de La7, registi, attori, c’è un nutrito gruppo di intellettuali e valorosi soci che stanno facendo crescere non solo i numeri, ma anche la qualità.

Sei nato e cresciuto a Padova, cosa ti lega alle Dolomiti Bellunesi?

Una lunga storia di cammino. Non ho mai vissuto la montagna come turista mordi e fuggi, ci andavo per cercare me stesso, non la wilderness per liberarmi dello stress della città. La frequentazione della montagna per me è stata sempre come un carotaggio sociale, culturale, turistico. Ho sempre voluto conoscere le persone del posto e oggi mi sento uno di loro al punto che ho deciso di stabilirmi a Colle Santa Lucia, dove ormai passo oltre metà dell’anno. Lì sto bene, riesco a riscoprire la ciclicità delle stagioni, dimentico il consumismo, ritrovo un silenzio esteriore e interiore. Ho più vita sociale che a Padova, ma coi padovani intendo, che mi vengono a trovare, perché è più facile vivere le relazioni qui, si fa una camminata, si apre una bottiglia di vino…Si fanno cose che è sempre più difficile fare in città. Ho trovato la mia quota, come dice Cognetti, che non è solo quella del benessere, ma della consapevolezza del legame con il territorio. Avverto il respiro della terra che si fa sempre più ansante.

Il sentiero selvatico ci porterà tutti in montagna?

Sono convinto che sempre più persone sentiranno il richiamo, soprattutto giovani. Però attenti a non trasferire in montagna certe dinamiche, altrimenti non abbiamo capito niente. Solo adottando uno spirito diverso riusciremo a ricostruire delle nuove comunità. Sarebbe bello che anche il CAI spingesse in questa direzione, con campagne di riurbanizzazione dei borghi abbandonati delle Alpi. In sezione usiamo l’hashtag #alpinismidiversi, perché alpinismo deve significare prima di tutto amore per l’alpe, non performance sportiva. Alpinismo è poesia della terra.