Il libro della settimana. L'uomo e l'orso possono convivere? Intervista a Filippo Zibordi

Viaggio nella vita di nove specie alpine di carnivori, per comprendere il valore della biodiversità e l'importanza di adattarsi in un mondo alle prese con il cambiamento climatico. E dove tutto è interconnesso.

 

“L’uomo e l’orso possono convivere?”. La domanda è semplice, quanto complessa la risposta. Nell’omonimo libro (pp. 193, euro 16,00, Dedalo 2023), lo zoologo Filippo Zibordi, milanese di origine e trentino di adozione, affronta il tema della convivenza nell’ambito del più ampio discorso sulla crisi della biodiversità, attraverso i profili di 9 specie alpine, simboli della natura e di altrettante questioni legate alla sua preservazione, di cui presenta anche schede tecniche e spunti video tramite dei Qr-Code disseminati qua e là. Il tono rimane sempre piacevolmente divulgativo, frutto di uno sforzo comunicativo allenato da un’intensa attività nelle scuole, da una collaborazione al Master Fauna HD - Professionisti della Comunicazione per la Fauna, l’Ambiente e il Paesaggio all’Università dell’Insubria (per conto dell’Istituto Oikos, per cui è referente del Trentino) e anche dai libri precedenti, anche se questo, dichiara, è un po’ più autobiografico e meno manualistico degli altri due. La biodiversità ne risulta come l’altra faccia del cambiamento climatico, con la differenza che se del secondo oggi si parla molto (purtroppo, ma finalmente), del primo ancora non ci si è perlopiù resi conto a dovere. Perché in fondo deve sempre accadere qualcosa, qualcosa di tragico ovviamente, perché si aprano gli occhi, motivo per cui l’orso è il facile protagonista del titolo, anche se poi nel libro si parla anche di ermellino, lontra, sciacallo, volpe (la più capace ad adattarsi a noi), di specie alloctone e poi del lupo (che alloctono non è ovviamente), che con l’orso condivide la fama di “cattivo”. Cattivo (o buono) non esiste nel mondo animale: ecco uno dei concetti che Zibordi cerca di spiegare, mettendo in guardia dall’antropizzazione degli animali di matrice disneyana (ma nemmeno Esopo è privo di colpe). In sintesi, la convivenza con questi grandi predatori si fonda sulla distanza. Una certezza che deriva dalla conoscenza delle specie e del loro comportamento, capace forse di riportare serenità nel dibattito sui grandi carnivori delle Alpi che, come scrive nell’introduzione Emanuele Biggi (che con Sveva Sagramola dal 2013 conduce “Geo” su Rai3), finiscono per essere amati o odiati con la forza delle tifoserie da stadio. 

 

Perché si parla così poco di crisi della biodiversità?

Oggi ci occupiamo dei cambiamenti climatici perché ormai sono evidenti. La crisi della biodiversità è molto più lenta, non ci cambia la vita se si estinguono alcune specie, alcune non le abbiamo ancora nemmeno scoperte (soprattutto fra gli insetti). Finché non si estingueranno gli impollinatori non ce ne renderemo conto: oggi si parla di servizi ecosistemici per dare un valore a quelli che la natura ci rende gratis. Si è provato a calcolare quanto costerebbe replicare gli impollinatori, in Cina hanno pure provato a costruire dei piccoli robot. Lo stesso vale per la torbiera che purifica l’acqua senza volere niente indietro da noi. Ragionare in termini di pagamento dei servizi ecosistemici è un ribaltamento rivoluzionario che può fare molta presa sui grandi investitori. Col limite che non riusciamo a dare un valore a tutte le specie: si rischia di passare da una morale estetica (salvo la farfalla perché è bella, non lo scarafaggio) a una morale economica (salvo i muschi della torbiera, ma non l’apparentemente inutile fiorellino). Invece tutto quello che esiste ha un senso, siamo noi che ancora non lo abbiamo scoperto».

Per spiegare quanto il ritorno del lupo sia vantaggioso per la biodiversità parli di “paesaggio di paura”, di cosa si tratta?

Dall’inglese “landscape of fear”, è un concetto ancora sotto osservazione in realtà. In breve: a Yellowstone, il ritorno del lupo ha diminuito il numero dei cervi, aumentati in maniera eccessiva, e indotto quelli rimasti a ritirarsi in zone meno esposte per paura di essere predati. Questo ha portato al ritorno della vegetazione scomparsa, soprattutto sulle rive dei torrenti, e di alcuni animali che la abitano, come i castori. Anche nella foresta vergine di Białowieza, in Polonia, e nel Parco dello Stelvio (parte lombarda e trentina), si è rilevato che i cervi modificano l’uso dell’habitat con il ritorno del lupo. È il concetto di “cascata trofica”, l’effetto a catena innescato da un cambiamento dell’equilibrio ecosistemico, con un “effetto domino” sui livelli sottostanti.

In questo equilibrio è giusto che un predatore segua le sue regole, anche se a noi paiono crudeli, come il “surplus killing”, uccidere più prede di quelle che si possono mangiare. Ma allora la convivenza è possibile? È necessaria? 

Convivere è possibile, non ovunque a seconda delle specie. Con l’orso in Pianura Padana no, altrove sì, ma mettendo in atto alcune misure. Anche se devo dire che negli ultimi anni noi zoologi siamo rimasti sorpresi a trovare specie come il lupo o lo sciacallo in zone dove non ce li aspettavamo: il lupo nel mantovano, nel cremonese, quindi zone di pianura (altro che simbolo della cosiddetta wilderness), lo sciacallo nel Circeo seguendo le nostre discariche. Gli equilibri cambiano, non possiamo fermarli. La convivenza è necessaria? Abbiamo fatto a meno di tante specie per anni, ma è una roulette russa: non sappiamo quando, ma a un certo punto il sistema va in crash. Citando una metafora della California Academy of Science, è come viaggiare su un aereo dove spariscono prima le tendine dei finestrini, poi i sedili, poi i bulloni, ma noi ce ne accorgiamo solo quando l’aereo crolla.

Ti sei occupato per 13 anni della reintroduzione dell’orso in Trentino, nell’ambito del progetto LIFE Ursus, di cui parli insieme a quello speculare di LIFE Wolf Alps. Descrivi fuori da ogni retorica ciò che ha significato l’uccisione di Andrea Papi da parte di JJ4 lo scorso aprile, il dispiacere per la tragedia, il senso di fallimento come scienziato, anche il senso di colpa, la strumentalizzazione politica, la lotta tra fazioni impaurite e disinformate. Proprio la disinformazione sembra essere il punto e il suo contrasto una sfida per il futuro. Politica e comunità scientifica sono entrambe chiamate in causa: quali sono le rispettive responsabilità?

La disinformazione è legata al modo di fare politica oggi, fatto di semplificazioni, di risposte immediate, ma anche ai social media: 10 secondi è la soglia di attenzione media su Instagram, ma in 10 secondi è difficile spiegare l’orso. È difficile che passino messaggi complessi, perché vince chi dà messaggi facili quanto irrealizzabili. In Trentino è successo questo. Dall’altro lato poi c’erano gli animalisti disposti, contrariamente alla visione degli ecologi, a sacrificare un’intera comunità per difendere un solo esemplare. Per quanto riguarda la scienza, porto il mio esempio: nei 60 giorni successivi all’uccisione di Andrea Papi, ho rilasciato oltre 40 interviste. L’ho fatto perché ho competenza in materia, avendo lavorato al progetto Life Ursus, ma è anche vero che dagli altri c’è stato un silenzio assordante: ai tecnici della Provincia di Trento era stato imposto il silenzio. Il Parco Adamello Brenta non voleva cavalcare la bagarre perché era il momento del lutto. Ispra non parlava perché era accusata addirittura di aver impedito l’abbattimento. L’associazione ATIt di teriologi sta ancora scrivendo un position paper per indicare la posizione ufficiale… Ma la stampa voleva risposte immediate! La scienza ha dimostrato in questo caso di avere una distonia enorme con i tempi della comunicazione. Ed è sbagliato che in un paese democratico a parlare sia un libero professionista e non un’università, un museo, un’associazione scientifica.

A gennaio molti ragazzi dovranno scegliere le superiori, lo zoologo può essere considerata una professione del futuro?

Per l’opinione pubblica tecnico faunistico e zoologo non sono nemmeno riconosciute come professioni. La conservazione della fauna non viene considerata indispensabile, pensando che la natura se la cavi da sola. Invece la gestione dei processi naturali sarà sempre più importante, perché gli equilibri sono dinamici e variano con noi. E saremo noi a perderci, se lasceremo che i cambiamenti climatici provochino l’estinzione di massa delle specie con cui ci siamo abituati a convivere finora.