K2. La montagna del mito. Intervista a Stefano Ardito

Storia di una delle montagne più iconiche del mondo a 70 anni dalla prima salita, fra scienza, tecnologia e ambiente. Per ricordare il passato, ma soprattutto riuscire a guardare al futuro dell'alpinismo d'alta quota.

Il K2, dalla prima ricognizione di Francis Younghusband nel 1887 a oggi, 70 anni dopo la prima salita, il 31 luglio 1954, mentre è in corso la spedizione italo-pakistana femminile organizzata dal CAI e Agostino Da Polenza. Il libro di Stefano Ardito, K2. La montagna del mito. Vittorie, tragedie, grandi imprese (pp. 368, 20,90 euro, Solferino 2024) abbraccia la storia di una delle montagne più simboliche del mondo, di certo la più simbolica per gli italiani. Oggetto del desiderio, luogo di polemiche, terra di ricerca, ma anche teatro di guerra e frontiera di sfida tecnologica. Il K2, con la sua forma di montagna come la disegnerebbe un bambino, continua ad affascinare anche chi dell’alpinismo non si interessa granché, ma di certo sa di quella volta che Bonatti affrontò la gelida notte himalayana, perso sotto a un campo 9 che non si trovava, insieme all’hunza Mahdi. Alla spedizione CAI guidata da Ardito Desio sono dedicati tre capitoli centrali, documentatissimi come tutto il resto, che includono le scoperte di Stefano Morosini sui retroscena geopolitici legati all’ottenimento del permesso, edite nel 2021. Ma Ardito, guarda caso nato proprio nel ’54 un paio di settimane prima della vetta, ha la saggezza e la sensibilità di non indugiare ancora in polemiche ormai superate, non perché inutili, ma perché è tempo di “trovare una verità condivisa”, come dichiara, e di lasciarsi il dolore alle spalle. Giornalista appassionato di storia dell’alpinismo, su cui molto ha scritto e scrive, autore di guide e reportage di viaggio pubblicati per “Airone”, “Alp”, “La Repubblica”, regista con una cinquantina di documentari all’attivo realizzati soprattutto per “Geo&Geo” su Rai3, Ardito è autore di decine di pubblicazioni, di cui molte sono inserite nella corposa bibliografia finale.

Stefano Ardito finalista al 68° Premio Bancarella con il libro “Alpini” (Corbaccio 2020). Foto dell'autore.

 

Stefano Ardito, questo libro segue gli altri su Everest, Monte Bianco e Kanchenjunga. Sono davvero molte le fonti riportate, ma sono particolarmente interessanti le interviste ad alcuni protagonisti di quella storia, come Desio, ma non solo.

Ho consultato documenti molto interessanti al Museo della Montagna e alla Biblioteca Nazionale del CAI a Torino. Ho parlato più volte con Desio, che sul K2 non aggiungeva una parola, non volendo rinfocolare le polemiche, rimandando ai suoi libri sull’argomento. In compenso raccontava delle sue spedizioni in Libia. Ho avuto occasione di intervistare Fritz Wiessner (capospedizione al secondo tentativo americano al K2, nel 1939, NdR): lo avevo cercato una volta a New York, a metà degli anni ’80, ma non poteva perché andava a sciare con figli e nipoti, a 90 anni, alla fine l’ho incontrato al Baou de Saint Jeannet, la famosa falesia provenzale, che guardava ancora con gli occhi lucidi dalla voglia che aveva di rimettere le mani sulla roccia. Per me è stato un momento umano molto bello, in cui mi ha anche raccontato come andarono le cose nel ’39, quando arrivò davvero a un passo dalla vetta del K2. 

La vicenda di Wiessner ci ricorda in effetti che sul K2 le polemiche non sono solo un affare italiano.

Abbiamo il vizio di concentrarci molto sulla storia del K2 scritta dagli italiani, a partire dal Duca degli Abruzzi, Vittorio Sella, Filippo De Filippi e poi la spedizione del ’54, non dando la giusta importanza alle tre spedizioni americane. Wiessner fece l’errore di comporre una squadra in cui a parte lui non c’erano alpinisti esperti e preparati. All’epoca negli Stati Uniti non ce n’erano molti di bravi in effetti, ma di fatto fu quello a innescare la tragedia. Molte accuse gli furono mosse anche perché era un tedesco all’epoca del nazismo, anche se era scappato in America perché non condivideva l’ideologia nazista.

La tua prima volta al K2?

Nel 1990 nella doppia veste di militante e di inviato di “Airone” con la spedizione “Free K2” di Mountain Wilderness, che io stesso avevo contribuito a fondare tre anni prima. È stata un’esperienza molto bella, perché c’erano personaggi formidabili come Fausto De Stefani, il mio carissimo amico abruzzese Giampiero Di Federico che aveva aperto da solo una via sull’Hidden Peak, e Carlo Alberto Pinelli, che conoscevo da tempo perché era mio istruttore di roccia al CAI Roma. Sono riuscito a salire anche un pezzetto di Sperone Abruzzi, proprio sopra al Campo Base. Sotto al K2 sono stato 3 volte in totale.

Era la prima volta che una spedizione veniva organizzata per ripulire il K2, accendendo i riflettori sul problema dell’impatto ecologico delle spedizioni sugli Ottomila.

Qualche anno prima ce n’era stata una all’Everest. Ancora non era stato inaugurato il Central Karakorum National Park. Mountain Wilderness era nata per tutelare montagne come il Gran Sasso e l’Olimpo minacciate da progetti di sviluppo sbagliati. Ma Pinelli aveva l’idea di fare un’azione simbolica a livello mondiale per l’intera comunità degli alpinisti. “Free K2” diede l’esempio, poi arrivarono le ONG pakistane e Da Polenza.

Un capitolo del libro è dedicato ai record, citi Nirmal Purja e poi Kristin Harila, parli della competizione spietata fra agenzie. Ricordi in particolare l’episodio accaduto nel 2023, in cui un portatore fu lasciato a morire mentre file di alpinisti gli passavano di fianco nell’indifferenza. Che rapporto c’è fra alpinismo ed etica?

L’alpinismo è già una scelta etica, altrimenti prenderemmo la jeep anziché andare a piedi. Sugli Ottomila però serve un’analisi specifica: lì si è partiti con le corde fisse e l’ossigeno, poi Messner ma prima ancora Diemberger e Buhl nel ’57 hanno inaugurato una fase di grande creatività, in cui tanti alpinisti di punta hanno potuto andare senza bombole in stile leggero. Oggi comanda l’alpinismo industriale fatto di bombole e corde fisse, è difficilissimo per gli alpinisti d’élite sfuggire a questo meccanismo, anche se intendono salire senza ossigeno. Per il resto i record ci sono sempre stati. Io apprezzo però che l’Asia si stia “riprendendo” gli Ottomila: gli sherpa prima facevano i portatori, oggi comandano il giro delle spedizioni commerciali e prendono il brevetto di guida alpina. Inizia ad esserci anche qualche pakistano, è positivo. Mentre è spaventoso quanto successo a Mohamed Hassan, mandato sul K2 senza esperienza e senza abbigliamento adeguato.

Quest’estate verrà inaugurato il “Cristina Castagna Center”, progetto di Tarcisio Bellò completato grazie al CAI, che nasce proprio con l’intento di formare alpinisti e guide evitando ai giovani di emigrare. 

Avrei dovuto partecipare anche io al trekking, ma per qualche problema fisico ho declinato l’invito di Tarcisio. Già per l’anniversario dei 60 anni Agostino Da Polenza si era inventato una spedizione di ringraziamento per il contributo dei pakistani nel ’54. È giusto aiutare a costruire delle scuole, ma bisogna fare in modo che in Pakistan non si concentri tutto sul K2, e in Nepal solo sull’Everest, che si crei dunque lavoro qualificato e ragionevolmente ben pagato anche sulle montagne delle altre valli. È naturale che si cominci dai luoghi famosi, a cui alcuni alpinisti si legano, come già sulle Alpi a inizio Ottocento, ma sarebbe utile che queste iniziative si aprissero a tutto il territorio.

Fin dalla sua nascita l’alpinismo si lega alla scienza e anche la spedizione del 70° ha un intento scientifico, con il progetto Ice Memory.

Le spedizioni scientifiche sono importanti per tutti, ma sono una specifica degli italiani. Sono più difficili da comunicare e spesso se ne viene a sapere poco, come per la spedizione in Karakorum di Filippo De Filippi (il medico che scrisse il diario della spedizione del Duca degli Abruzzi al K2 del ’29, NdR) subito prima della Prima guerra mondiale, su cui ho scritto un libro e girato un documentario. Ce ne fu una nel ’29 con il Duca e Desio, che si era appassionato al K2, e ovviamente nel ’54. Tra l’altro, fra i materiali inediti che ho avuto modo di visionare, c’è il diario di Bruno Zanettin che mi ha mostrato la figlia, un bellissimo resoconto di viaggio oltre che scientifico, di un uomo scaraventato là dalle Alpi.

Quali altri diari hai trovato per il tuo libro?

Oltre al diario di Zanettin ho potuto visionare quello di Pino Gallotti grazie alle nipoti, a Milano. Entrambe le famiglie hanno stampato una copia per gli amici, ma meriterebbero di essere diffusi al grande pubblico. E poi quello del medico Guido Pagani grazie al figlio Leonardo. Gino Soldà non teneva diari ma scriveva lunghe lettere alla moglie che avevano la stessa funzione, la nipote Michela me ne ha mostrate un po’. I diari degli alpinisti nel libro di Desio entrano in gioco solo per la giornata della vetta e il risultato è un po’ monocorde, invece a leggerli mostrano molto di più. Il punto non sono le polemiche, ma il fatto che la percezione del capospedizione di un’esperienza collettiva come quella non può essere l’unica.

Abbiamo parlato di scienza, non possiamo non parlare di tecnologia. Citi nel libro la recente mostra “K2 1954. Era come andare sulla luna”, a cura di Leonardo Bizzaro, Roberto Mantovani e Vinicio Stefanello, inaugurata all’ultimo Trento Film Festival, che mette l’accento proprio sul grande avanzamento tecnologico di materiali e attrezzatura visto nel 1954, spinto anche dalla guerra.

È stata la Seconda guerra mondiale a far fare alla tecnologia diversi salti in avanti che hanno cambiato la storia dell’alpinismo, ne ho parlato molto nel mio libro sull’Everest uscito con Laterza nel 2020. Innanzitutto l’ideazione di bombole di ossigeno leggere e di piccola dimensione, rispetto ai mostruosi cilindri che si trascinava Mallory. Poi l’invenzione della giacca di piumino: prima per ripararsi dal freddo c’erano le maglie di lana e ci si vestiva a strati, più freddo faceva più strati si mettevano, con effetto “omino della Michelin”. Infine, l’invenzione della corda di nylon che sostituiva i pesanti canaponi che a ottomila metri, lasciati nella neve, si ghiacciavano facilmente. Poi possiamo riflettere sul fatto che siano delle guerre a spingere l’avanzamento tecnologico… anche il GPS e medicinali, oggi imprescindibili, arrivano da lì.

Sei regista di documentari e citi anche l’aspetto cinematografico dell’alpinismo. Mario Fantin, come Bonatti, fu largamente bistrattato da Desio, ma le immagini che girò al K2 restano straordinarie.

Fantin è un personaggio fondamentale, e al contrario di Bonatti non ebbe nemmeno la dignità della polemica pubblica. Il cinema è un campo che si è talmente evoluto, con l’avvento della GoPro e dei droni, da essere imparagonabile. Ma credo che l’evoluzione del cinema di montagna sul K2 sia legata a Kurt Diemberger, che girò immagini clamorose, capaci di trasmettere emozioni fortissime, girando in presa diretta in maniera molto umana. Quando uscì il film Italia K2, la gente andò a vederlo in massa e giustamente, erano tempi in cui di immagini così se ne vedevano poche anche se è un film che risente chiaramente della retorica dell’epoca. Ancora oggi non è così tanta la filmografia sul K2, perché non è facile andare a filmare là, credo che ci sia spazio, sarebbe una bella sfida per chi vuole girare un vero film fatto bene sul K2.

Cosa ti aspetti dalla spedizione CAI italo-pakistana femminile al K2?

Penso innanzitutto che sia un’iniziativa sacrosanta e meravigliosa. Non ne parlo perché ho chiuso il libro alla stagione scorsa, altrimenti non sarebbe uscito in tempo, ma ne sto largamente scrivendo da giornalista. L’intuizione di Agostino Da Polenza e del Cai è giusta e trovo ridicole le polemiche sul fatto che sia un uomo a guidare una spedizione di donne. Sarà difficile sfuggire al meccanismo di programmazione e organizzazione delle spedizioni commerciali in corso sulla montagna. Non è che tutti possono attrezzare le proprie corde fisse. Diverso sarebbe se la montagna fosse vuota. Ma questo non toglie nulla al fatto che fosse giusto tornare sul K2 per i 70 anni. Sarebbe bello però che poi il CAI promuovesse una spedizione di sole donne anche su altre montagne meno affollate. Sarebbe un’esperienza diversa. I permessi per il K2 di quest’anno sono 180 e il giro d’affari generato da queste spedizioni è tale che i governi non possono limitare gli accessi…

Come si è creato il mito del K2? Scrivi che ancora nel 2023 Bizzaro censiva almeno 350 fra bar, ristoranti, hotel intitolati al K2. 

Rispondo citando quanto mi disse John Hunt (capo della spedizione inglese che per prima salì l’Everest nel 1953, NdR) durante un’intervista, 40 anni fa. Di colpo lui, Hillary e Tenzing divennero delle star mondiali, rimanendo quasi incastrati come testimonial di quella conquista. Non si capacitava dell’accoglienza ricevuta non a Londra o Parigi, ma al Cairo, dove mezzo milione di persone si erano presentate all’aeroporto. Per il K2 aggiungiamo che l’Italia usciva distrutta moralmente ed economicamente dalla guerra, la gente aveva bisogno di un grande mito di pace e il K2 glielo fornì. Anche Bartali contribuì a rilanciare l’immagine del Paese, ma Alcide De Gasperi fu bravo a inserirsi nel gioco geopolitico, ottenendo il permesso per il K2.

De Gasperi era un trentino, può aver pesato sulla sua sensibilità per la vicenda K2?

De Gasperi in montagna ci andava: nella biblioteca del CAI de L’Aquila qualche anno fa ho trovato la sua firma nel primo libro di vetta del Corno Grande del Gran Sasso, che ha una via normale non semplicissima. Avrà certamente contato, ma era anche un politico intelligente. E un politico può capire l’importanza dell’alpinismo anche se è nato in pianura. Prendiamo Andreotti. Nel ’54 era sottosegretario agli Esteri. Stefano Morosini, consultando i documenti del Ministero e del CAI a Torino non ha trovato traccia di un suo ruolo. Ma dirò una cosa. Nell’89-90 ho passato un mese su una nave di Greenpeace in Antartide, come inviato di “Airone”. In quel periodo Messner e Fuchs compivano la prima traversata a piedi. Erano anni in cui si discuteva se rinnovare il Trattato Antartico o aprire allo sfruttamento minerario. Gianni Squitieri, capo di Greenpeace Italia, portò me e Messner a Palazzo Chigi per parlare con Andreotti. Ci ascoltò per 10 minuti, trovò la cosa interessante e ci disse che ne avrebbe parlato con De Michelis. Due mesi dopo l’Italia cambiò posizione, portandosi dietro altri Paesi. Il Trattato fu rinnovato e a me resta la sensazione di aver partecipato a un momento storico.

Scrivi che le polemiche del K2 avrebbero potuto risolversi davanti a un bicchiere di vino, come in altri casi. Ma non andò così. È possibile oggi chiudere il caso K2?

La mia è una constatazione. Purtroppo, quando si parla di K2 non si possono non citare le polemiche, ma io ho cercato di tenerle il più lontane possibile. Sono dolorose viste col senno di poi. Il caso K2 si è chiuso formalmente nel 2008 con la relazione dei Tre Saggi. Il CAI avrebbe dovuto produrla nel ’64 quando Bonatti fece causa alla “Gazzetta del Popolo” e alla ricostruzione di Giglio, ma i tempi non erano maturi. Meglio tardi che mai, come per il reintegro dei soci ebrei espulsi durante il Fascismo avvenuto nel 2023. Ma non si può vietare di parlare di queste vicende, se un domani spuntasse un nuovo documento dovremmo riaprire, anche se non penso che ci sia più nulla da dire. Però basta litigare, basta con le tifoserie pro o contro Bonatti e Compagnoni: dobbiamo trovare una verità condivisa. Il K2 resta un mito meraviglioso per tutti gli appassionati di montagna in Italia e nel mondo.

Stefano Ardito sul Monte Velino (Abruzzo). Foto dell'autore.