Jungfraujoch - 3463 metri di contraddizioni

Sapevo che in Svizzera fossero avanti anni luce con i mezzi di trasporto, ma non avevo ancora davvero realizzato di poter partire da Berna centro (540 m s.l.m circa) e di raggiungere, in poco più di due ore, il passo dello Jungfrau (3463 m s.l.m) senza mai scendere dal treno. Per fortuna questa volta il biglietto è a carico dell’Università; siamo in visita all’Osservatorio meteorologico e Istituto d’alta quota dello Junfraujoch. Un piccolo sogno per chi, come me, si occupa di atmosfera e criosfera.

Passiamo davanti alla Nord dell’Eiger, è carica di neve inconsistente e non ci sono ripetizioni al momento. Nonostante la sua fama e la sua imponenza, non riesce a catturare la mia attenzione. Forse perché oggi non sono qui per questo, e non salirò a piedi. Si sale come i turisti possono salire.

©Marta Corrà

Penso all’età di questa linea ferroviaria nata quasi un secolo fa a scopo di ricerca, e le cui stazioni della cabinovia e del trenino ora sembrano aeroporti. Condividiamo la salita con centinaia di visitatori, la maggior parte provenienti dall’Asia. 

©Marta Corrà

Non riesco a non notare come la maggior parte di essi si inserisca a fatica nel contesto delle alte quote, a partire dal vestiario, completamente inappropriato. Sembrano tutti più interessati ai negozi di souvenir e agli stand di orologi e coltellini svizzeri, che all’ambiente in cui sono immersi. 

©Marta Corrà

Ma prima che i miei giudizi modellino troppo il mio umore, arriviamo alla porta di accesso agli spazi interni dell’Istituto. Ne visitiamo gli spazi interni assieme ai quattro tecnici che si occupano del suo funzionamento, alternando diciotto giorni in quota, a diciotto giorni a valle. Non dev’essere una vita semplice, tuttavia mi immedesimo in loro, che spendono buona parte dell’esistenza lassù, in quell’angolo di mondo dove la neve e il ghiaccio resistono quasi tutto l’anno, per riferire le condizioni a MeteoSwiss.
Poi facciamo tappa nei laboratori, dove vengono monitorate le concentrazioni di aerosol in atmosfera; la presenza di quelle impurità è materia tanto complessa da modificare la formazione delle nuvole e regolare persino la quantità di radiazione che arriva al suolo. 

©Marta Corrà

E finalmente eccoci fuori, sul colle, nella neve. Appena chiedono, mi propongo di impugnare la pala da valanga e scavare un pozzetto di due metri. Per nostra sfortuna troviamo solo neve fresca compattata, così conduciamo qualche analisi di stabilità del manto e preleviamo campioni da analizzare al nostro ritorno in città. Dal fondo del buco estraiamo delle carote di firn di circa un metro, nelle quali è già possibile notare come i grani cambino forma grazie alle pressioni e al processo di sinterizzazione, uno dei metamorfismi dello strato nevoso. Dopodiché, con calcoli approssimativi, risaliamo alle tensioni e al tasso di slittamento della sommità del ghiacciaio...

 

Sono stanca ma al contempo soddisfatta. Una giornata tra aria sottile, vento e tanta scienza. 
Ma appena ritorniamo a valle, una parte di me si rabbuia, e torna a guardare le cose da una prospettiva più ampia. Quante contraddizioni ho visto lassù: la morte della fatica provocata dall’innesto delle infrastrutture turistiche, quella fatica sana, capace di arricchire le esperienze in montagna, rendendole più vive e meno omologate; la Ricerca con la R maiuscola, metodica, appassionata e, oggi più che mai, necessaria; infine il turismo nella forma più assetata che possa esistere. Un contrasto stridente. Come può una sola porta dividere il mondo del consumismo, iniziatore di mutamenti climatici, da chi invece questi cambiamenti li sta osservando e, nel farlo, riflette su come affrontarli? Quanto dovrò scrivere ancora, prima di poter rispondere? Forse tutte e più le numerose puntate di questo spazio.